LA RESPONSABILITÀ: CARATTERE COSTITUTIVO E MISURA DEL POTERE GIURIDICO.
Brevi note a margine di recenti orientamenti del giudice amministrativo e contabile
di Marcello M. Fracanzani
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Che cosa distingue il potere del gendarme da quello del bandito? Ad onta di Kelsen, vi è una differenza anche soggettiva tra i due comandi? Oltre il criterio formale "della divisa", oltre al riferimento squisitamente positivo (e, ancora una volta, formale) della norma che quel potere ha attribuito ad uno solo dei due, vi è un tratto sostanziale, un carattere ontologico che qualifica, distinguendolo, il potere giuridico dal potere antigiuridico? Dovremmo arrenderci al potere di fatto o al fatto del potere, secondo le simmetrie care al direttore di questa rivista?
Prendo le mosse da alcuni casi concreti per trarre qualche spunto utile -se non a confezionare provvedimenti amministrativi legittimi- almeno ad evitare il giudizio di responsabilità avanti la Corte dei conti.
Anticipando le conclusioni, dirò subito che la responsabilità contabile incide sull’azione amministrativa. Di più: la misura della responsabilità è misura della regolarità dell’azione amministrativa, che non si fonda più solo sulle norme attributive del potere, bensì deve conformarsi alle regole sulla responsabilità. La responsabilità come tratto qualificante la giuridicità del potere; è il respondére della giurisprudenza romana, che implica l’alterità del diritto, il superamento dell’unicità propria del mero potere, del non saper ammettere altri al fuori di sé. Il respondére che implica una domanda, il riconoscimento della propria insufficienza nell’atto di domandare, il movimento del dialogo radice di feconda crescita, origine della civiltà; dialogo anche con sé stessi, secondo il dàimon tis che Socrate sentiva in sé. Solo il potere del bandito (il banditus, l’escluso dalla società) non è proporzionale, non è connesso ad una responsabilità.
Ma veniamo subito al primo caso.
Con recente sentenza la sezione regionale umbra della Corte dei conti ha ritenuto la propria giurisdizione sopra quei direttori dei lavori che siano stati anche progettisti di opere pubbliche, sull’assunto che i doveri di verifica dei progetti propri del direttore dei lavori sorgono fin dal momento della progettazione. Sicché "la figura del progettista sfuma in quella del direttore dei lavori, figura questa da sempre ritenuta soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti." Si viene dunque sfondando il muro del rapporto di servizio per giungere a ricomprendere sotto l’alveo del giudice contabile anche quei privati legati alla P.A. con il contratto di natura professionale di cui all’art. 2230 del codice civile. Ma se così è già per i direttori dei lavori (ed uguale sorte sembra destinata ai progettisti), che dire del responsabile del procedimento e della nuova figura del validatore? È possibile una forma di assicurazione che anestetizzi la responsabilità erariale contabile? Anche a carico dell’ente in favore dei suoi dipendenti? E se il direttore dei lavori risponde in sede erariale anche del progetto che ha steso, che dire del promoter (di cui all’art. 37 bis L. n. 109/94) e del nuovissimo general contractor? Certo, chi si appresta a proporre ad un ente la realizzazione e la gestione di un opera pubblica ha tutto l’interesse di sapere se sarà tenuto a rispondere anche avanti la Corte dei conti.
Ma andiamo con ordine.
Per abbozzare un tentativo di risposta alle domande che ci siamo poste occorre ricostruire il quadro normativo e proiettarlo in previsione sul nuovo regime degli appalti pubblici di cui oggi parliamo.
Il punto di partenza può essere nelle leggi n. 19 e 20, entrambe del 14 gennaio 1994, che -com’è noto? hanno ridisegnato la mappa della Corte dei conti, con l’istituzione di una procura e di sezioni giurisdizionali in ogni regione, a tutela del patrimonio pubblico mediante risarcimento del danno a carico di chi ha agito in nome della P.A. con dolo e colpa grave, in ragione di atti e comportamenti che avessero causato depauperamento dell’erario. Il profilo non ha subito destato interesse, almeno fino al momento in cui, con L. n. 127/97, gli atti di gestione sono stati attribuiti ai dirigenti o agli apicali delle singole P.A.. Ma ancora gli effetti rimanevano circoscritti e sostanzialmente sopiti, atteso che atti e provvedimenti illegittimi potevano essere annullati dal giudice amministrativo, ma non costituivano fonte di pretesa risarcitoria del cittadino nei confronti della P.A.. La deflagrazione è avvenuta con la nota sentenza n. 500/99 delle sezioni unite della Corte di cassazione e, già prima con il D.lgs. n. 80 del 31 marzo 1998, cioè col principio del risarcimento del danno per lesione da interessi legittimi. Il cocktail micidiale non era voluto e -verosimilmente? nemmeno previsto dal legislatore. Ma tant’è. Si apre subito il capitolo dell’atto amministrativo illegittimo risarcibile e dell’evocazione in giudizio dell’agente a ristoro di quanto l’ente abbia dovuto sborsare in prima battuta al privato leso.