INFERENZA E GIUDIZIO
Tre ricerche su Charles S. Peirce
di Giovanni Tuzet

1. – Massima pragmatica e significazione effettuale.

Un filo conduttore di Inferenza e giudizio è il seguente: mostrare la relazione fra causalità e significazione (prima ricerca); verificare questo principio nella pratica inferenziale, specialmente in relazione all’abduzione che inferisce una causa da un effetto (seconda ricerca); considerare giuridicamente il giudizio e la legislazione negli stessi termini, cioè come qualcosa che significa in ragione delle sue cause e in vista dei suoi effetti (terza ricerca).
Tale attenzione per cause ed effetti risponde ad un approccio pragmatista. Come intuito da Frank Ramsey nel 1927.

The essence of pragmatism I take to be this, that the meaning of a sentence is to be defined by reference to the actions to which asserting it would lead, or, more vaguely still, by its possible causes and effects.

Questo il principio che ne traiamo: si può dire cosa è x solo se possono esserne determinati gli effetti e le cause. Più esattamente, il senso di x è nelle sue cause e nei suoi effetti. Dunque, la teoria della significazione ha una dimensione ontologica, giacché di un’entità x, affinché ne sia determinata la significazione, devono determinarsi gli effetti e le cause. Ma questa materia ontologica non può essere trattata senza un approccio cognitivo. Dunque, una teoria della significazione in termini causali non potrà non articolarsi ad una teoria della cognizione e del ragionamento, che permetta di comprendere come sia possibile l’attestazione di un effetto o di una causa.
A partire dal 1870 circa, Peirce elabora un metodo di chiarificazione concettuale, ovvero un metodo logico capace di determinare la significazione reale dei concetti e discriminare le definizioni reali da quelle puramente nominali . La massima pragmatica, con la quale si usa far nascere il pragmatismo, enuncia tale metodo di chiarificazione concettuale: il significato di un concetto è nei suoi effetti concepibili e praticamente rilevanti. Riportiamo la massima pragmatica nella versione del 1878, la più nota.

Consider what effects, that might conceivably have practical bearings, we conceive the object of our conception to have. Then, our conception of these effects is the whole of our conception of the object (CP 5.402) .

Il pragmatista non è, come vuole il luogo comune, un uomo d’azione avverso al pensiero, ma è interessato a determinare logicamente non meno che scientificamente la significazione dei concetti.

The pragmatist has in view a definite purpose in investigating logical questions. He wishes to ascertain the general conditions of truth (CP 2.379; 1902).

Così la massima pragmatica non indirizza direttamente all’azione hic et nunc, ma piuttosto determina la significazione delle idee generali che rendono chiaro il pensiero e permettono di concepire razionalmente dei propositi d’azione; è un metodo di riflessione più che una Weltanschauung (CP 5.3, del 1902; cfr. CP 5.464-465).
Ma nell’arco del novecento, cosa ha significato il termine ‘pragmatismo’? Richard Rorty, cui si deve in buona misura, malgrado molte sue posizioni difficilmente condivisibili, una ripresa degli studi sul pragmatismo dal 1980 in poi, nota nel 1982 la vaghezza, l’ambiguità e la molteplicità di impieghi del termine ‘pragmatismo’ . D’altra parte, già nel 1908 Arthur Lovejoy distingueva 13 pragmatismi. Il primo di essi era comunque il pragmatismo di Peirce, secondo cui, nella ricostruzione di Lovejoy, il significato di una proposizione (sic) è nelle future conseguenze che essa ha per l’esperienza . Crediamo che non sia del tutto appropriato considerare il pragmatismo di Peirce come principio della significazione proposizionale. Più ampiamente, la massima pragmatica di Peirce è un metodo di chiarificazione concettuale che determina la significazione dei concetti ma che può essere sicuramente esteso alle credenze ed alle proposizioni, e forse alle parti non concettuali di una proposizione. Quando il pragmatismo di Peirce è inteso in chiave proposizionale, notiamo, rischia di restringersi ad un’accezione linguistica e semantica in senso stretto – cioè ad una teoria della significazione separata da una teoria della conoscenza. Ma come vediamo nell’articolazione fra la prima e la seconda ricerca, una teoria della significazione non basta a se stessa, e richiede di essere articolata ad una dimensione epistemica e ad una teoria della conoscenza.
Storicamente, riscontriamo il passaggio da un periodo linguistico del principio pragmatista della significazione ad un periodo cognitivo. Il primo va dall’inizio del 1900 ai suoi ultimi decenni; il secondo inizia dagli ultimi decenni del 1900 e prosegue attualmente. Intendiamo dire che nel primo periodo, di massima, il principio pragmatista della significazione è stato inteso in termini linguistici come principio della significazione proposizionale (Lovejoy, Ramsey in Facts and Propositions). Mentre dal secondo periodo è stato tradotto in termini cognitivi e più schiettamente pratici, come principio della significazione delle entità con cui un agente entra in relazione (Gibson ad esempio: la nozione di affordance è la traduzione pratico-cognitiva del principio pragmatista di significazione, a nostro avviso).
Ciò che proponiamo è la nozione di effettuale, articolata alla nozione di effettivo. L’articolazione fra le due ha al proprio principio la distinzione modale fra attualità e possibilità: effettivo è l’effetto hic et nunc; effettuale è l’effetto possibile. Da questa distinzione modale è ricavabile il principio di significazione che difendiamo: predicando di x un certo effettuale denotiamo gli effetti possibili di x che costituiscono il significato di x.
Ora, perché introdurre la nozione di effettuale se, come vediamo alla fine della terza ricerca in particolare, la riflessione di Peirce non è certo avara di nozioni modali e di versioni diverse della massima pragmatica? In primo luogo, con la nozione di effettuale vorremmo esprimere unitariamente due tipi distinti di significazione che hanno la loro comune radice nel principio pragmatista della significazione: la significazione in termini di disposizioni e la significazione in termini pratico-cognitivi.
Accanto alle discutibili letture verificazioniste, non di rado la massima pragmatica è stata letta in termini di disposizioni . Questa seconda lettura è certamente consona allo spirito con cui Peirce rivede nel 1905 la versione del 1878. Eppure cerchiamo di indicare come ne sia preferibile un allargamento. Nel 1905 Peirce sottolinea che il principio della significazione da lui difeso implica la realtà di certe possibilità, di quelle possibilità reali cui dà il nome di would-bes e che dipendono dal sussistere di certe disposizioni e di certi habits: secondo il celebre esempio, dire di un diamante che è duro significa dire che se fosse sottoposto a pressione non verrebbe scalfito (CP 5.457). Il significato del predicato di durezza è costituito dagli effetti che si produrrebbero date certe circostanze rispetto ad un oggetto duro. Tali effetti hanno lo statuto di possibilità reali, dipendenti da una disposizione. E analogamente vi sono possibilità reali dipendenti non da una disposizione fisica e ‘innata’ ma da un habit acquisito.
L’analisi della possibilità in Peirce distingue la mera possibilità dalla possibilità reale, ovvero la pura possibilità dalla possibilità condizionale, rispettivamente denotate dalle espressioni may-be e would-be (nel quadro categoriale di Peirce corrispondono rispettivamente alla Firstness ed alla Thirdness, mentre alla Secondness corrisponde ciò che esiste attualmente) . Con la nozione di pura possibilità si designa senz’altra specificazione quanto non è impossibile che accada (may-be) (Peirce utilizza anche la nozione di can-be ma non sembra porre una distinzione decisiva fra le due). Con la nozione di possibilità condizionale si designa quanto non è attuale ma sarà attuale al verificarsi di certe circostanze (l’antecedente del condizionale). Questa seconda forma di possibilità si distingue a fatica da una forma di necessità condizionale: ove si verifichino certe circostanze, certe conseguenze seguiranno (would-be). La necessità condizionale non porta beninteso sulle conseguenze stesse ma solo sulla relazione di conseguenza. Un would-be non implica la necessità dell’attualizzazione di certe conseguenze, ma solo la necessità della loro attualizzazione in seguito al verificarsi delle circostanze antecedenti.
Due considerazioni andranno fatte per quanto ci riguarda. La prima è che lo spettro delle possibilità significative in termini pratico-cognitivi è ben più ampio dello spettro coperto dai would-bes e più stretto di quello coperto dai meri may-bes. In generale, la determinazione della significazione di x non si limita a quanto segue necessariamente x, né può allargarsi a tutto ciò che non è impossibile che segua x. Se questo è vero, vi è il bisogno di una nozione intermedia ai fini di una teoria della significazione. Che sappia catturare lo spettro delle possibilità significative. Forse la nozione di can-be svolge tale funzione? Peirce non sembra porre una distinzione decisiva fra can-be e may-be, anche se in principio non sarebbe impossibile. Cerchiamo di vedere se a questo possa rispondere la nozione di effettuale, che designa i possibili effetti di x che costituiscono la significazione di x. Siamo i primi ad avvertire la difficoltà e forse l’impossibilità di determinare con esattezza in che misura un effettuale possa ampliare quanto designato da un would-be e restringere quanto designato da un may-be. Forse una risposta può venire in termini cognitivi: lo spettro degli effetti possibili coperto da un effettuale è quello che il nostro patrimonio cognitivo associa giustificatamente ad un oggetto di cognizione. In questo modo, da una parte, la teoria effettuale della significazione si articola alla dimensione ontologica di cui la cognizione rende conto e dall’altra alla dimensione pratica che anima i nostri processi cognitivi.
In senso pratico e cognitivo, l’effettuale richiama la nozione di affordance elaborata in particolare da James Gibson; nei nostri intenti invita ad estendere la significazione causale ed effettuale, affinché non riguardi solo credenze ed enunciati, ma anche oggetti e stati di cose con cui un agente entri in relazione . Ancora, come per Ramsey nel 1927, si tratta di relazione fra conoscenza ed azione, ma non limitatamente alla relazione fra conoscenza proposizionale ed azione intenzionale, ma anche fra cognizione di oggetti ed azione, conoscenza percettiva ed azione . La mangiabilità di un frutto, la camminabilità di una superficie, la malleabilità di un materiale… sono affordances che rispetto alle disposizioni hanno un legame indissolubile con l’agire intelligente ed intenzionale. Il concetto di effettuale vuole essere un concetto generale capace di comprendere i possibili effetti intenzionali e quelli non intenzionali, la mangiabilità di una mela e la solubilità dello zucchero o l’infiammabilità del legno. La forma logica che esprime tali relazioni è la medesima, cioè quella di una regola condizionale il cui antecedente può consistere in condizioni intenzionalmente procurate o sfruttate (secondo una versione operazionale della massima pragmatica) o in condizioni che producono un effetto indipendentemente da qualsiasi intervento intenzionale (secondo una versione disposizionale della massima pragmatica).
La seconda considerazione sugli effettuali è che la loro introduzione pare ancora più urgente ove si tracci una significazione giuridicamente connotata. Infatti, se ammettiamo che il principio della significazione effettuale è che la significazione di x è costituita dagli effetti di x, la traduzione giuridica di tale principio vuole che la significazione giuridica di x sia costituita dagli effetti giuridici di x. Poniamo che x sia un atto: la significazione giuridica di x è costituita dagli effetti giuridici di tale atto. Ma supponiamo che tale atto sia preso in considerazione da una norma, e che i suoi effetti giuridici siano gli effetti che una norma prescrive a suo riguardo. Ora, se il principio di significazione si estendesse ai soli would-bes ne conseguirebbe per la significazione giuridica un’estensione che in ogni caso non potrebbe superare quella dei would-bes, cioè degli effetti condizionalmente necessari. Ma che senso avrebbe predicare la giuridicità di quanto è condizionalmente necessario? Non ha alcun senso che la legislazione prescriva quanto è condizionalmente necessario, giacché il verificarsi delle circostanze antecedenti sarebbe sufficiente alla realizzazione delle conseguenze. Si potrebbe allora replicare che il diritto potrebbe prescrivere la realizzazione di certe circostanze antecedenti al fine di ottenere necessariamente la realizzazione di certe conseguenze? La replica mancherebbe il punto in questione, poiché il problema sarebbe semplicemente trasferito sulla prescrizione di tali circostanze antecedenti: ove fossero condizionalmente necessarie la prescrizione non avrebbe senso.
Dunque, se la significazione di x è data dagli effetti di x, gli effetti giuridici di x non possono essere effetti necessari. Se lo fossero, non sarebbero giuridicamente significativi. A tal punto, la nozione di effettuale può venire in soccorso di una teoria giuridica della significazione, designando come effetti giuridicamente rilevanti quelli che seguono normativamente da certe circostanze.
In questo modo, la nozione di effettuale può costituire una nozione unificante per la teoria della significazione. Essa comprende:

gli effetti condizionalmente necessari (i would-bes)
certi effetti possibili cognitivamente rilevanti (e non tutti i may-bes)
gli effetti normativi.

A proposito degli effetti normativi, il principio di effettualità presenta una forte analogia con le concezioni dette consequenzialiste. Certe concezioni del giudizio di diritto si dicono consequenzialiste se pongono le valutabili conseguenze del giudizio come ragioni per il giudizio stesso. Ovvero, una decisione è preferibile ad un’altra se ne sono preferibili le conseguenze. Perché non attenersi alla terminologia consequenzialista anziché introdurre la nozione di effettuale a coprire gli effetti normativi di un giudizio? Le risposte ci sembrano almeno due: la prospettiva effettuale costituisce una prospettiva più ampia, logico-semantica non meno che cognitiva (cosa che non è sempre evidente negli argomenti consequenzialisti, che spesso si limitano alla filosofia morale), e in secondo luogo, soprattutto, la nozione di effettuale si arricchisce dell’articolazione con la nozione di effettivo, che ne rappresenta la verificazione induttiva, giacché, sosteniamo, un effettuale pienamente imputabile è un effettuale che sia stato verificato appartenere ad un certo oggetto (mentre la nozione semplice di conseguenza non offre questa articolazione e questa dinamica).

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