IL PARADOSSO DELLA GLOBALIZZAZIONE NORMATIVISTICA: A Proposito di un recente contributo di Natalino Irti
di Ugo Pagallo

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È apparso recentemente sulla "Rivista di diritto civile" (2002, XLVIII, n. 5) il saggio di Natalino Irti su Le categorie giuridiche della globalizzazione (pp. 625-635), che, come spiega l’Autore all’inizio dell’articolo, trae origine dal XXII congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e politica (Macerata, 2-5 ottobre 2002), di cui abbiamo avuto in parte modo di occuparci nel Forum di questa rivista. All’interno di una oramai vasta bibliografia dedicata all’argomento – penso, inter alia, a Globalisation and Legal Theory di William Twining (2000), a Dallo stato monoclasse alla globalizzazione di Cassese e Guarino (2000), ai saggi di Ferrarese su Le istituzioni della globalizzazione e Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, e così via -, il contributo di Irti riprende alcune sue precedenti tesi, che, non per questo, smettono di essere invero paradossali. Come già nel caso del dibattito tenuto a suo tempo con Emanuele Severino, su diritto e tecnica – si v. sul punto quanto abbiamo riferito in Alle fonti del diritto, Giappichelli, Torino 2002, pp. 4-13 -, la tesi del giurista italiano, in definitiva, insiste sul fatto che i genitivi di espressioni così in voga ai giorni nostri come "diritto della tecnica", "diritto dell’informatica" o, appunto, "diritto della globalizzazione", devono essere intesi, sempre e comunque, in senso oggettivo. Riproponendo il vecchio cliché normativistico kelseniano – per cui, secondo la configurazione "edile" del Grund, la regola giuridica come forma o nomo-dotto normativo, disciplina l’oggetto da regolare, senza esserne al tempo stesso condizionata -, Irti giunge alla conclusione che i complessi fenomeni economico-finanziari, politici, militari, etc., che correntemente vengono compendiati all’insegna della globalizzazione, non incidono sul modo in cui i giuristi, rectius, gli epigoni di Hobbes e di Kelsen, hanno rappresentato l’ordinamento nel corso degli ultimi secoli.

A questo fine, onde dimostrare in che senso le categorie fondanti del positivismo normativistico kelseniano risulterebbero impermeabili alle istanze della globalizzazione, l’analisi d’Irti prende le mosse dall’economia e dallo "spirito del capitalismo moderno, impaziente di confini, agitato dalla volontà di profitto, proteso alla conquista di nuovi mercati. La tensione globale – scrive infatti Irti – gli è intrinseca ed originaria: come la volontà di profitto non è mai soddisfatta, e mai si quieta e riposa, così l’espansione del capitalismo è di per sé sconfinata: non conosce misure di tempo e di spazio, trascende limiti opposti dalla natura e dalla storia, aspira all’indistinto ‘dovunque’ (…). Mentre politica e diritto rimangono fedeli alla terra, l’economia varca i confini, si spoglia di ogni passato, converte i luoghi in mercati. E se diritto e politica si provano a inseguirla e raggiungerla, essa si volge in accorti ripari, e si fa ad invocare la neutralità degli affari o l’etica dell’impresa, o consimili formule d’ingannatoria dissimulazione" (op.cit., p. 628).

Tuttavia, se anche la rivoluzione tecnologica in corso, con lo spazio telematico e il tempo virtuale, risulta funzionale all’"originaria" ed "autentica" vocazione globalizzatrice dello "spirito del capitalismo" – per cui, in questo contesto cibernetico, "la razionalità dell’economico può dispiegarsi con inaudita pienezza: i negozi prendono carattere di assoluta oggettività; le parti, spogliate di qualsiasi identità, svolgono funzioni tipiche di mercato; gli attriti psicologici sono prevenuti o repressi; il tempo non è più storia, ma (…) criterio di calcolo quantitativo" (p. 629) -, or bene, Irti stigmatizza la tesi che scorge nella globalizzazione il semplice predominio della sfera economica sul diritto, oppure, la messa in mora delle categorie positivistiche che fanno leva sui tradizionali confini giuridici dei vecchi stati nazionali sovrani. Come dichiara il nostro giurista, in effetti, "consimili tesi – mai, o quasi mai, raccordate con una filosofia o teoria generale del diritto – vagheggiano che le parti s’incontrino in una zona estranea ai diritti statali, in una sorta di primitiva e originaria naturalità" (p. 630). Di modo che, a detta d’Irti, l’alternativa al tradizionale monopolio giuridico dello stato, in nome della globalizzazione, sfocerebbe ora nel "solipsismo negoziale" ora nell’"autonomia privata" destinata a subentrare allo stato come nuova "sovranità". "L’indefinita moltiplicazione delle sovranità non è soltanto anti-statalistica, ma pure radicalmente anti-democratica, se appena si rifletta che titolare della sovranità, nei moderni Stati democratici, è il popolo; e che le volontà individuali vi sono sottomesse alla volontà generale. La collocazione degli accordi in un immaginario stato di natura giova a sottrarli al principio costitutivo di ogni democrazia, e finisce per riaprire l’antagonismo – d’altronde, mai sedato – tra volontà popolare e libertà dell’homo oeconomicus. E qui si mostra che, almeno sul terreno politico-giuridico, la globalizzazione è una categoria essenzialmente negativa: si risolve, cioè, in una serie di rifiuti e di estraneità: nei confronti di politica Stato autorità, e, dunque, dei principi fondativi degli stessi regimi democratici" (p. 630).

Nonostante le apparenze, tuttavia, il giudizio d’Irti non comporta soltanto un ben preciso giudizio di valore. In realtà, la paventata minaccia anti-democratica di forze globalizzatrici economiche "sovrane" muore sul nascere, se, come afferma appunto Irti, "quell’assoluto ed estremo solipsismo ha pur bisogno di appoggiarsi fuori di sé e di presupporre gli ordini giuridici degli Stati. Il negozio di scambio presuppone la determinazione del mio e del tuo, ed implica altresì che il valore dei beni sia espresso nella misura quantitativa di una moneta. Ecco allora che l’accordo meta-storico o extra-storico si popola di figure (mio, tuo, moneta, ecc.), appartenenti ai diritti di singoli Stati, senza le quali la volontà delle parti non potrebbe neppure manifestarsi e il negozio risulterebbe del tutto inintelligibile" (pp. 630-631). Riprendendo espressamente Hobbes e la tesi che la "prova decisiva di giuridicità" riposi nella coercizione – per cui, con Kelsen: "se A, allora dev’essere B" -, Irti avanza perentoriamente l’idea che "l’appoggiarsi, il necessario concretizzarsi, del mercato globale nei diritti degli Stati riconduce gli accordi entro i confini territoriali, dove ancora vigono il ‘dove’ applicativo e il ‘dove’ esecutivo. I presupposti giuridici dei negozi sono sempre nella sfera dei diritti territoriali, i quali vi apprestano forme e modi di attuazione coercitiva" (ibidem).

In questo modo, lungi dal mettere radicalmente in discussione le procedure normativistiche del positivismo, "il problema si sposta così dal mercato planetario alle scelte dei diritti statali" (p. 631). Infatti: o gli stati si offrono in concorrenza tra di loro, oppure si congiungono mediante trattati; ragion per cui, mentre, dal punto di vista ideologico, il giurista offre una chiara cifra valutativa della globalizzazione in atto come l’"essenzialmente negativo" – in quanto tirannide dell’homo oeconomicus che, nemico della volontà generale e dello spirito democratico, scopre nello sconfinamento degli spazi telematici l’humus che "spoglia le parti di qualsiasi identità" -, non di meno, dal punto di vista oggettivo della reine Rechtslehre, è il caso di notare che questi stessi fenomeni finiscono per essere "purificati", direi quasi magicamente, attraverso le procedure messe a punto dallo scienziato del diritto.

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