PREFAZIONE ovvero della palingenesi di un testo
di Francesco Gentile

Invero "il concetto della cosiddetta statistica (…) viene dato in maniera molto diversa e difficilmente, nella grande quantità degli scritti sull’argomento, se ne troverebbe uno che nell’ordine e nel numero delle sue parti concordi con gli altri. Dunque – conclude il professore di Gottinga – non è inutile ricercare che cosa sotto questo nome propriamente si debba intendere, che cosa sia compreso nel suo ambito, e determinare con certezza la naturale disposizione e la connessione naturale delle sue parti. Dal diritto naturale e dal diritto delle genti noi sappiamo che cosa sia una società civile (bürgerliche Gesellschaft) o repubblica (Republik). La si presenta come un’associazione di molte famiglie (Gesellschaft vieler Familien) le quali, per la ricerca del loro comune benessere, sono unite l’una all’altra per mezzo di un governo (Regierung). In particolare ad una tale unione si dà il nome di regno (Reich) quando governa una sola persona, cui tutte le altre sono sottomesse; al contrario, quando un’intera società (eine ganze Gesellschaft) all’interno di questa unione deve impartire gli ordini, allora essa si chiama in senso stretto libero stato o repubblica (Freistaat oder Republik). Questi concetti ci aiutano a capire in maniera chiara la parola stato (Staat). Con tale parola ci si rappresenta realtà diverse: talora una qualsiasi bürgerliche Gesellschaft, talora una freie bürgerliche Gesellschaft, talora una Republik e talvolta anche il sistema di governo (Regierungswesen), quando esso viene inteso come costituzione dello stato (Staatsverfassung). Ma nella parola statistica la parola Staat ha un significato tutto diverso".
La lunga citazione e la commistione di termini italiani e tedeschi si spiegano e si giustificano perché meglio non si poteva rappresentare la pars destruens, per così dire, della definizione di stato quale radice di statistica. Nel linguaggio comune con la parola stato, precisa lo statistico, si possono indicare molte delle cose rappresentate dalla giurisprudenza tradizionale, quella per intendersi del diritto naturale e del diritto delle genti, ma nessuna di queste è rappresentata dalla parola stato che sta alla radice della statistica. Lo stato della statistica è tutto altro dalla società civile, dalla società di più famiglie, dalla stessa repubblica e persino dal sistema di governo, dalle varie modalità cioè del più generale processo di ordinamento politico delle relazioni intersoggettive secondo natura. Solo se si è pienamente consapevoli della desostanzializzazione a cui è stato sottoposto il concetto di stato da parte degli statistici è possibile intendere in modo conveniente il significato dell’analisi statistica applicata, per usare ancora le parole di Achenwall, a Land und Leute, "all’insieme di tutto quanto concretamente si trova in una società civile e nel suo territorio". Solo se si riconosce la virtualità del concetto di stato, assunto dagli statistici, è possibile utilizzare operativamente le leggi statistiche. "In computisteria si decidono le sorti del mondo" (Zibaldone, 1006). Così, con profetica intuizione, Giacomo Leopardi avrebbe commentato qualche anno dopo il fatto che "ormai si può dire che le guerre o i piati politici si decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de’ mezzi".
Per la pars costruens della definizione di stato quale radice della statistica ci viene in aiuto l’allievo di Ashenwall e suo successore sulla cattedra di Gottinga, A. L. Schlözer, il quale nel trattato Theorie der Statistik, del 1804, dopo una lunga ed interessantissima disquisizione sulla stessa parola statistica, che non è "latina, né tedesca, né francese, né altro" e che per questo egli significativamente definisce "barbara" nel senso di "altra" rispetto a tutte le lingue storiche, conclude affermando in modo perentorio che "soltanto i gruppi umani che vivono in una società statale possono essere oggetto di una statistica". Si tratta di una formula che, nonostante l’utilizzo di metafore realistiche quale quella di "vivere in una società statale", designa qualcosa di assolutamente convenzionale, la "forma stato". Testualmente: "Il diritto e il potere di costringere fisicamente e brutalmente (spesso il potere soltanto, fino a quando lo si conserva), rappresenta la forma generale di ogni stato". Si dirà che accanto alla "forma generale" il professore di Gottinga, prevede anche un "fine generale". "Fine dei singoli è avvicinarsi alla propria felicità: milioni di uomini mettono in comune questo loro fine individuale con l’ingresso nello stato; o piuttosto, lo stato è una cosa comoda per milioni di uomini che ne fanno parte per il raggiungimento di questo fine; esso non sarebbe possibile a deboli isolati, senza il formarsi di una massa di milioni di forze". Ma già il modo in cui ne parla rivela con assoluta chiarezza almeno tre cose.
Innanzitutto, bisogna riconoscere che il fine dello stato viene definito "generale" solo in modo traslato, o più esattamente per convenzione, poiché quello di "avvicinarsi alla propria felicità" è tassativamente indicato come fine proprio dei singoli in quanto individui, ciascuno dei quali è assunto come arbitro insindacabile della propria felicità, nei termini della più totale ed assoluta incomunicabilità. Se qualcosa in comune si può dire vi sia fra i singoli, è la decisione di utilizzare lo stato come "cosa comoda" per il raggiungimento del proprio fine individuale. Ed è questo il secondo dato di cui bisogna prendere atto, la natura strumentale dello stato, prodotto del trasferimento ad uno o ad alcuni tra i singoli componenti una società civile del "diritto di volere, in determinati casi, per tutti" e del "potere di imporre a tutti il proprio volere con la coercizione, in casi particolari". Solo per inciso vale la pena di ricordare come questo diritto e questo potere costituiscano le due facce della "forma stato" e come in definitiva quella del potere "fino a quando lo si conservi" ne sia la prima e principale. Tutto ciò significa che, ed è il terzo dato di cui bisogna tener conto, la statistica in quanto scienza dello stato in realtà non considera se non la "forma stato" e soprattutto ogni cosa considera in quella prospettiva, in altri termini nella prospettiva del "potere di imporre a tutti il proprio volere con la coercizione". "Per sentire questo – conclude Schlözer dopo aver analizzato le diverse prospettive attraverso le quali guardano all’ordinamento politico il funzionario statale, il cittadino e il cosmopolita – è necessario un peculiare tatto, un occhio esercitato, che soltanto una quantità di altre dotte conoscenze può produrre: e così colui che si occupa delle cose dello stato diventa statistico".
Quando parlo di riduzione della politica a statistica mi riferisco in maniera puntuale alla considerazione dell’ordinamento politico delle relazioni intersoggettive, solamente ed esclusivamente, nella prospettiva della "forma stato" cioè della meccanica dello strumento statale, dalla quale non possono uscire se non delle soluzioni virtuali dei problemi, lontane dalla natura delle cose ma anche, mi permetterei di dire con Machiavelli, dalla "verità effettuale" di esse. Perché la riduzione della politica a statistica compromette non solo quanto vi è di etico nel processo di ordinamento politico delle relazioni intersoggettive, nel senso che se ne disinteressa e dunque ignora, ma anche mette a repentaglio l’operatività dello stato quale mezzo per il conseguimento della felicità personale, nel senso che si è preventivamente preclusa la considerazione dell’adeguatezza dello strumento rispetto al fine.
Rifiutare la riduzione della politica alla statistica non significa però rinunciare all’utilizzo dello strumento statistico nell’ordinamento politico, e così si spiega anche la particella in apparenza stravagante o/e posta tra politica e statistica nel nuovo titolo del libro.
"Non un naturale bisogno ma la moderna politica per lo più escogitata in gabinetti solitari condusse alla statistica", scrive A. F. Lueder nel saggio intitolato Kritik der Statistik und Politik nebst einer Begründung der politischen Philosophie, del 1812. "Quanto più chiaro diventava il mio sguardo e quanto più sollevato il mio punto di osservazione, tanto più spaventosi mi si manifestavano i frutti della statistica e della politica: tutti quegli impedimenti che l’una e l’altra pongono sul cammino dell’industria coi quali si opera non solo contro il benessere ma anche contro la cultura e l’umanità, tutti quei freni che vengono opposti al corso naturale di ogni cosa, tutte quelle vittime che si offrono ad un dio sconosciuto che viene chiamato benessere dello stato e degli uomini, vittime che vengono ad esso sacrificate con la copertura di tutti i principi della filosofia, della religione e dell’intelletto umano, si ricavano a prezzo della moralità e della virtù".
Benché ne riconosca il mordente e in parte la fondatezza, non condividerei la critica senza quartiere di Lueder alla statistica. Se, infatti, la riduzione della politica a statistica, praticata in gabinetti solitari, avviene "a prezzo della moralità e della virtù", non si può affermare che la pratica della virtù nell’ordinamento politico delle relazioni intersoggettive implichi di per sé la rinuncia all’utilizzo degli strumenti utili e quindi anche degli strumenti statistici. E’ nella assolutizzazione scientistica dello strumento che se ne perde insieme il valore etico e la stessa operatività. E’ nella riduzione del problema politico al problema della "forma stato" che si smarrisce il fine dell’ordinamento politico e insieme si compromette la funzionalità stessa di quello straordinario strumento di gestione del potere che è lo stato. Questo mi pare sia, oggi, il problema dominante della nostra comune esperienza politica, sul quale è necessario riflettere, criticamente. Anche per non cadere, agli antipodi, nel rifiuto della politica com’è accaduto all’infelice cantore della contraddizione umana, Giacomo Leopardi, il quale nel luglio del 1828 scriveva all’amico Giordani: "Mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità de’ popoli si può dare senza la felicità degl’individui. I quali sono condannati all’infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immagini, le illusioni". Di quanto sia disorientante la consolazione delle immagini e delle illusioni sarà proprio il poeta, con il suo doloroso travaglio, prova vivente.

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