PREFAZIONE ovvero della palingenesi di un testo
di Francesco Gentile

Ma proprio su questo punto nevralgico della concezione dell’ordinamento politico stava incrinandosi anche il patto fiduciario che personalmente ritenevo avessimo stretto con la compagine che m’aveva chiesto di candidarmi, a cui avevo risposto senza riserve mentali e senza richieste preventive di assicurazione. In buona fede.
Intellettuali e potere. E’ stato questo argomento di discussioni accesissime in ogni tempo. Nel nostro, tuttavia, ha assunto una curvatura particolare per i due modelli di intellettuale che vanno per la maggiore, quello del "commesso" e quello del "chierico".
Ad Antonio Gramsci dobbiamo il modello del commesso. "Gli intellettuali – scrive il fondatore dell’Unità – sono i commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico". Chiamati a mobilitare "il consenso spontaneo delle masse all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo dominante". E a lubrificare gli ingranaggi "dell’apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina (…) quando il consenso spontaneo viene meno". A Julien Benda si deve invece il modello del chierico. "Con questo nome – scrive l’idealista francese – intendo parlare di tutti coloro la cui attività non persegue fini pratici ma che, cercando la soddisfazione di un bene non temporale, dicono in qualche modo: ‘Il mio regno non è di questo mondo’. E assumono un atteggiamento di formale opposizione al realismo delle masse".
Com’è naturale, entrambi i modelli presentano luci ed ombre. La disposizione ad essere organico al potente di turno fa dell’intellettuale-commesso l’oggetto di serrato corteggiamento da parte dei gruppi in lotta per il potere, a cui esso in genere corrisponde secondo l’indole, con immediate concessioni oppure con maliziose ritrosie. Sennonché, proprio la sua presenza nel recinto del potere, la sua specifica funzione, quella di mobilitare consensi e lubrificare ingranaggi, finisce indirettamente per evidenziare carenze e odiosità del sistema sulle quali si voleva stendere il velo. Donde il sospetto che nei suoi confronti viene nutrito, anche da parte di quelli che se ne servono. E magari il rigetto. Neppure Gramsci è riuscito a sottrarvisi. L’appartenenza ad un "altro mondo" consente all’intellettuale-chierico di non confondersi nel quotidiano, di non scendere a compromessi con la logica prometeica del produrre, di non farsi travolgere dalla baraonda della vita. Sennonché, proprio la necessità di tenere rigorosamente separate in questo mondo teoria e prassi lo costringe, paradossalmente, a ritagliarsi una nicchia, adeguandosi e divenendo ostaggio del mondo; di "questo" beninteso, non dell’ "altro". Neppure a Benda è riuscito diversamente.
Proprio quando le tensioni per il "ribaltone" stavano giungendo all’acme, con l’avvento del "governo tecnico", ossimoro assai dubbio, con cui il Presidente della Repubblica aveva costruito un machiavellico marchingegno "per tenere la barra al centro", "a destra", uso l’espressione nel modo strettamente descrittivo della topografia parlamentare, d’improvviso e inopinatamente scoppia la discussione su intellettuali e potere, assumendo ben presto dei toni sgradevoli, con reciproche, violente, accuse tra intellettuali e politici. Recriminando gli uni per la volgare strumentalizzazione della cultura da parte dei politici; deprecando gli altri il narcisistico privilegio degli intellettuali. Con conclusioni rovinose, del tipo: "non c’è cultura politica di destra" oppure "a destra non c’è spazio politico per la cultura". Parallelamente "a sinistra", continuo ad usare l’espressione nel modo strettamente descrittivo della topografia parlamentare, si sviluppava una polemica, anch’essa rovente e velenosa, su "il PDS e le spore che germinano alla sua ombra", accusati d’essere "più la protesi con cui il progetto tecnocratico può conquistare il consenso indispensabile per competere sul mercato elettorale che non l’anima di un’efficace alternativa in vista di una reale alternanza".
Le due polemiche, ad un osservatore superficiale, potevano sembrare distanti, prive di collegamento e di nesso logico. Polemiche di routine, polemiche da mass media. Non così per l’unico politico con il quale mi sono trovato intellettualmente in sintonia senza tuttavia riuscire a decifrarne l’esibito cinismo. Se maschera di un’indifesa passione popolare o sedimento di una lunga ed intrigante pratica del "palazzo", non saprò mai perché se n’è andato. Senza parole. Su sua richiesta, allora, mi soffermai ad analizzare un po’ più approfonditamente l’evento e dallo studio in filigrana delle sue due facce sono stato condotto alla scoperta di quello che ritengo sia il nodo problematico attorno al quale oggi ruota ma potrebbe anche avvitarsi tutto il processo dell’ordinamento politico.
Di primo acchito, la polemica scoppiata "a sinistra", avente di mira il partito "che conta e bussa a palazzo" ma che non è un "soggetto autonomo" sulla scena politica bensì la protesi della "destra tecnocratica ed elitista", pur rivelandosi assai realistica sembrava soprattutto l’espressione di un complesso, prodotto della sconfitta strategica patita a sinistra negli anni ’80. Con la dissoluzione del modello sovietico di socialismo reale ma anche con l’affossamento del più potabile modello socialdemocratico. Un complesso che non poteva venire rimosso dalla semplice riproposizione dell’esperienza storica del movimento operaio, con tanto di partito di massa, di sindacato di classe e di stato sociale, come sembrava illudersi di fare la "sinistra sociale" nell’esercizio romantico di un "ruolo di resistenza". Paradossalmente, riflettendo su questo complesso non si poteva evitare l’impressione d’essere inopinatamente rimbalzati agli antipodi del "socialismo scientifico", praticato per più di un secolo a sinistra con sommo disprezzo per ogni forma di "misticismo". Avendo, come diceva Marx, "rimesso sui piedi" la dialettica hegeliana e dato fondamento reale, cioè economico, a tutte le sovrastrutture, in primis alla politica. L’impressione era quella d’essere tornati a "camminare sulla testa".
D’altra parte, collocare sbrigativamente "a destra" il progetto tecnocratico, sul quale si sarebbe ricomposto il blocco storico tra grande industria del Nord e grands commis del declinante capitale pubblico, tra i salotti buoni del capitale privato e le rappresentanze arrendevoli di un mondo del lavoro in ritirata, sembrava il frutto di un autoinganno prima d’essere, com’era, una vera e propria falsificazione. A chi abbia solo leggiucchiato l’Antidüring non può sfuggire, infatti, la singolare continuità che intercorre tra la prefigurazione di un mondo nel quale "con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della società (…) l’anarchia all’interno della produzione sociale viene sostituita dall’organizzazione cosciente secondo un piano" e l’attualità di un mondo, qual è quello in cui ci sta conducendo il progetto tecnocratico, di cui sopra, con la singolare socializzazione dei mezzi di produzione mediante un indebitamento pubblico superiore al 100% del prodotto interno, una pressione fiscale salita ben oltre il 50% del reddito e la conseguente concentrazione del potere nelle mani di élites di tecnici, politicamente irresponsabili. D’altronde, non era stato Engels a scrivere che "nella misura in cui scompare l’anarchia della produzione sociale viene meno anche l’autorità politica"?
Con ciò non intendo affermare, immediatamente, che quello tecnocratico, allora ma anche oggi in atto, rappresenti la piena e compiuta realizzazione del progetto originario, storico, di quanti si sono collocati e si collocano "a sinistra". Il farlo sarebbe una forzatura anche se non si possono negare le singolari e scoperte affinità che intercorrono tra i due. D’altra parte neppure si può sostenere, immediatamente, che il progetto tecnocratico, allora come oggi insidiante la politica, sia da collocarsi tout court a destra, come propone Marco Revelli, in compagnia e in contrappunto con una "destra populista e plebiscitaria, a suo modo sostenuta da un’analisi materiale della società, la quale pensa che al blocco storico su cui si era edificata la Prima repubblica (l’alleanza competitiva tra grande industria protetta dallo stato e sindacati operai) debba sostituirsi una nuova alleanza egemonica, un diverso blocco sociale, costituito dagli imprenditori della piccola e media industria e dal crescente esercito dei senza-lavoro, dagli emarginati del patto industrialista, oltre che dai ceti medi in sofferenza per la stretta congiunta del fisco e della grande distribuzione concentrata".
Se ci si libera, tuttavia, dalla prima impressione, di complesso e di inganno, non si può non riconoscere come la polemica sviluppatasi a sinistra, al tempo del "ribaltone", finisse per segnalare, seppure di riflesso ma precisamente, una scissione prima inesistente, o perlomeno non percepita, tra una parte tecnocratica ed elitista ed una sociale e popolare all’interno di ogni organizzazione politica, fosse un partito o una coalizione di partiti poco importa. A destra come a sinistra. E proprio nel riconoscimento di questa scissione finiva per confluire, magari inconsapevolmente, la polemica che a destra aveva visto contrapposti intellettuali e politici, a proposito del ruolo che nell’organizzazione della macchina politica aveva o avrebbe dovuto avere l’anima. Nonostante che, nel trambusto dello scontro, fosse sfuggito ai duellanti di notare come, in apparenza opposti, i due modelli di intellettuale, del commesso e del chierico, fossero in realtà due facce del medesimo, proponendo l’uno come l’altro la canonizzazione della frattura irriducibile tra intellettuale e popolo ed innescando, in tal modo, un "elitismo" destinato ad attraversare tutte le ideologie e, più genericamente, tutte le organizzazioni politiche. A destra come a sinistra.
Tutto questo sperimentavo, come impasse paralizzante la decisione. Riflettendo peraltro sull’errore che Vincenzo Cuoco aveva rimproverato agli intellettuali partenopei del 1799, d’aver voluto portare alla libertà il popolo napoletano sentendosene spiritualmente distanti, essendo stranieri in patria. Quando irruppe sulla scena politica la "Bicamerale per le riforme".
Il quadro politico era mutato. Il "governo tecnico" aveva esaurito il suo oscuro compito. Sebbene in virtù delle "desistenze", al voto era prevalso l’Ulivo. Il Governo Prodi, fortemente impegnato con l’ingresso in Europa, latitava sul fronte delle riforme. Ma a nessuno sfuggiva come in quel particolare frangente storico il compito fondamentale della classe politica, rispetto al quale ogni altro problema seppur importante ed urgente passava in secondo piano, fosse quello di "portare a compimento la rivoluzione maggioritaria in una coerente riforma costituzionale". Sicché, dopo interminabili e faticose diatribe sul modo di procedere, nelle quali si riflettevano i tratti della guerra di tutti contro tutti a cui aveva portato il paese la mancata, tempestiva, istituzionalizzazione del referendum popolare del ’93, si giunse alla Bicamerale, che apparve subito compromessa dai disegni fin troppo scopertamente perseguiti dai leaders dei due schieramenti in essa impegnati: del tutto altri ed eterogenei rispetto a quello delle riforme, per il quale essa era stata costituita, e miranti, senza darlo a vedere, ad un nuovo "ribaltone", sebbene inverso rispetto a quello di prima. La spinta al rinnovamento, che aveva caratterizzato quegli anni, si stava esaurendo e tornava a prevalere una concezione della politica come gioco di potere, statistico, nel quale i compromessi sono d’ordinaria amministrazione. Un risiko per il quale ero del tutto inadeguato ma soprattutto che mi avrebbe portato in contraddizione con tutto quanto ero andato insegnando nell’ormai non breve mia libera docenza.
In un articolo, apparso come fondo dell’organo di partito a cui da tempo ero stato invitato a collaborare ed intitolato Politica nella palude, allora non riuscii a trattenermi dallo scrivere a commento del fatto: "Non si pensi, farisaicamente, che possa bastare un formalistico accordo sul modo di procedere mettendo subito le mani avanti per escludere che vi possa essere comunanza di vedute sui contenuti sostanziali. Perché, se così fosse, non vi sarebbe spazio neppure per quell’accordo che altro non costituirebbe se non un tranello per chi vi si fosse prestato in buona fede. Non si tratta, in altri e più chiari termini, di mettere solo in piedi un secondo tavolo di discussione legislativa, quello costituzionale accanto a quello ordinario, per di più con i medesimi commensali, bivalenti oltre che bicamerali, per rendere più complicato di quanto già non sia il processo d’istituzionalizzazione della volontà popolare. Perché altrimenti sarebbe legittimo sospettare che per quella via si sia voluto soltanto rendere più scorrevoli l’intrallazzo e l’affare". E, ad uso dei lettori della parte a cui quell’organo si rivolgeva, concludevo: "Quale terribile tranello sia stato per l’Italia la politica dei ‘due forni’ non può sfuggire soprattutto a coloro che, essendo stati esclusi dall’uno come dall’altro, non sono rimasti coinvolti nella loro putrescente rovina, potendosi così presentare al momento opportuno con le mani pulite e la fede integra come autentica risorsa per il rinnovamento della politica nazionale. Non va dimenticato che si possono tradire gli elettori non solo spostandosi da destra a sinistra o da sinistra a destra ma da destra e da sinistra lasciandosi scivolare nel centro della palude".
Quello fu il mio ultimo fondo. Un successivo articolo sul "compromesso", invocato da tutte le parti e con tutti gli aggettivi, eccetto quello di "storico" consumatosi in altra e non proprio memorabile stagione, senza che se ne adducesse motivo non venne pubblicato. Ne rimasi male e ritenni concluso il mio "viaggio a Siracusa. Della pena provata, per l’infelice esito dell’impresa, trovando la ragione in quella che, con il Maestro della ????te?a (? pe?? d??a???, p???t????), chiamerei come "la pulizia della tela". La fatica connessa al distacco, che mi parve necessario per non rimanere ostaggio di una delusione, mi si presentò dinnanzi come il passaggio obbligato per la reale uscita dall’ideologico. Invero la caduta delle ideologie, che ha preso, "in grande", le forme dell’iconoclastia più selvaggia, mai si sono contate tante critiche della Sinistra da sinistra e da destra della Destra, "in piccolo" ha dato la stura alla nebulizzazione dell’ideologie, ossia alla moltiplicazione dell’ideologico, per tanti quanti sono i componenti la società. Volendo utilizzare un termine del linguaggio tecnico oggi più avanzato, potremmo dire che ha prodotto il "nano-ideologico".Sennonché l’intrinseca aporia, che nell’ideologico poteva rimanere machiavellicamente mascherata, nel nano-ideologico è destinata a rivelarsi senza maschera, perché l’incongruenza della pretesa assolutizzazione dell’individuale non riesce a nascondersi nella guicciardiniana generalizzazione del "particulare", e l’implosione dell’intero sistema, ideologico, appare inevitabile.

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