PREFAZIONE ovvero della palingenesi di un testo
di Francesco Gentile

Credo d’aver trovato la risposta ad una domanda maliziosa, ma non maligna, avanzata alla prima edizione di Intelligenza politica e ragion di stato da un brillante giornalista che si nasconde sotto lo pseudonimo serioso di Massimo de’ Manzoni. Una domanda radicale. "Nelle ultime righe del trattato – scriveva il recensore – traendo la rigorosa conseguenza di quanto è andato dicendo in precedenza, Gentile afferma che in ogni comunità le istituzioni statali rivelano il limite del riconoscimento in comune del Bene. Sicché l’aforisma secondo il quale ogni popolo ha il governo che si merita risulterebbe pienamente giustificato. Ma a questo punto sorge spontanea nel lettore una domanda: nel caso (che può anche essere un caso limite, ma non è certo fantascientifico, basti pensare a quel che avviene in America Latina o in Africa) di una nazione che passa bruscamente, nel volgere di qualche anno o addirittura di pochi mesi, da un regime democratico ad un regime totalitario per poi ritornare, magari passando attraverso una breve dominazione straniera, a quello democratico, che verrà in seguito nuovamente rovesciato da un colpo di stato militare; in questo caso, dicevamo, quale di questi governi si è meritato quel popolo? O è forse ipotizzabile che in esso ci siano stati mutamenti così repentini e radicali, che il riconoscimento in comune del Bene abbia subìto mutamenti di indirizzo tanto contrastanti ed improvvisi da far meritare a quella gente ciascuno dei governi cui è stata soggetta? Gentile non ha affrontato questa ipotesi e la domanda rimane quindi senza risposta".
In realtà a quella domanda, quando mi fu rivolta, non avevo trovato una risposta se non quella meramente fattuale, ed estrinseca, che "da un regime democratico ad uno totalitario e viceversa" non erano in realtà passate ma fatte bruscamente passare le nazioni del caso. Ancorché i casi per i quali la domanda si poteva convenientemente porre, per nulla fantascientifici, si fossero moltiplicati e approssimati a noi, tanto da non doverli andar a cercare in America Latina o in Africa. Per l’esperienza fatta nel consiglio comunale di una paciosa cittadina della provincia veneta, credo di potervi rispondere oggi. Per la mancanza d’opposizione. Il riconoscimento in comune del Bene, tanto più in una comunità che sia retta da un regime democratico, si misura fondamentalmente dall’esistenza e dalla vitalità dell’opposizione politica.
Potrebbe sembrare un paradosso dato che, in regime democratico, è alla volontà della maggioranza che sono affidate le sorti della comunità. Sicché parrebbe logico ritenere che queste, le sorti della comunità, dovessero dipendere dall’effettiva capacità di quella, la volontà della maggioranza, di coagularsi intorno al bene comune trasformandosi così in volontà generale. Senza, peraltro, sottovalutare le complicazioni segnalate da Rousseau, nel Contrat social, a proposito della "molta differenza che spesso c’è tra la volontà di tutti e la volontà generale: questa considera soltanto l’interesse comune; l’altra ha di mira l’interesse privato, e non è che una somma di volontà particolari".
Il fatto è che, per convenzione, nel regime democratico si assume come volontà generale quella uscita dalla somma algebrica dei voti espressi in assemblea, dalla "somma delle differenze" diceva precisamente il Ginevrino, sicché il problema della relazione tra interesse particolare e bene comune, per chi si trovi nella maggioranza, sfugge o può sembrare addirittura risolto dal fatto d’essere "in maggioranza", per il quale l’interesse, della maggioranza, non può non coincidere col Bene, della comunità. D’altra parte, l’urgenza immediata della gestione degli affari della comunità polarizza chi si trova in maggioranza sull’esercizio di fatto del potere tanto da sospingerlo, quasi senza che se ne accorga, ad assumere il potere stesso come Bene. Le infinite e talvolta indecifrabili discussioni sulla "governabilità", che hanno diviso la destra e la sinistra italiane, sollevate da chi successivamente si è venuto a trovare in maggioranza, provenendo da sinistra come da destra indifferentemente, ne sono un’incongrua ma innegabile prova. D’altronde, a ben vedere, della stessa "riforma maggioritaria", nella quale l’italiano "anonimo, statistico, comune" si è tuffato entusiasticamente col referendum del ’93, chi doveva ha coltivato soltanto e prevalentemente la metà operativa e strumentale, la metà burocratica volta a favorire la "governabilità", assicurando un più tranquillo cabotaggio ed una più ampia libertà di azione all’esecutivo, sottratto agli ondeggiamenti delle assemblee ed ai pasticci della consociazione partitocratica. Mentre nulla o quasi s’è fatto per promuovere e praticare l’altra metà del maggioritario, quella più propriamente politica. Quella volta a rinnovare la stessa rappresentanza popolare: non più concepita come sommatoria dei diversi e contrastanti interessi delle parti sociali, inevitabilmente destinata ad essere mercantile e compromissoria, ma come superamento dialettico delle frammentarie pretese di parte, da lasciarsi per quel tanto che vi è in esse di normale alla composizione naturale dei rapporti interpersonali. Mirando alla selezione intelligente di ciò che è cardinale ed essenziale per la vita in comune, da perseguirsi mediante un confronto scoperto tra le diverse rappresentazioni del bene accomunante, sulle quali il popolo deve essere chiamato a pronunciarsi mediante l’elezione diretta di quello che a suo avviso ne fosse il più fedele interprete.
In minoranza, al problema del rapporto tra interesse particolare e bene comune non si sfugge. Esso ti insegue, ti incalza, ti perseguita. Non ti lascia dignitose vie d’uscita. Se non l’opposizione.
"Ferma, chiara, costruttiva. Leale, responsabile, coerente. Radicale, polemica, di popolo". No! Non è un componimento poetico al modo di un futurista alla Palazzeschi, ma un florilegio degli attributi, e non sono tutti, con cui si cercava di qualificare l’opposizione. Anch’io ne avevo trovato uno di originale, prendendolo a prestito dal celebre statista inglese Boolingbroke: "patriottica". Non era che un tentativo illusorio di addolcire l’amaro boccone della minoranza.
Implacabile come "scimmia sulle spalle" di chi si trova ridotto in minoranza sta il sofisma di Rousseau: "Quando dunque in assemblea prevale il parere contrario al mio, ciò non significa altro se non che io mi ero sbagliato, e che quella che io credevo essere volontà generale, non era tale. Se fosse prevalso il mio parere particolare, avrei fatto una cosa diversa da quella che volevo ed è allora che non sarei stato libero".
Se non riesce a liberarsi dalla presa di questa sottile ma perversa insinuazione del sommo pontefice della democrazia moderna, chi si trova in minoranza è travolto da una sola ossessione, quella di togliersi dalle peste e farsi maggioranza. Come, non importa. Con l’autocritica, il trasformismo, la consociazione. Soluzioni in apparenza diverse, per la diversità delle circostanze in cui si presentano e del carattere di chi le pratica: si pensi, solo a titolo d’esempio, all’autocritica di un Bukarin, al tempo delle purghe staliniane, o al trasformismo parlamentare italiano, ricorrente purtroppo in ogni stagione, alla consociazione praticata dal P.C.I., nei frangenti della Guerra fredda. E, tuttavia, accomunate dal medesimo oblio del bene comune.
Per liberarsi dalla presa del sottile e perverso sofisma del sommo pontefice della democrazia moderna, chi si trova in minoranza non ha che il riferimento al bene comune, per il quale farsi opposizione, senza aggettivi. Opposizione senzaltro.
Concretamente, fare opposizione significa controllare l’attività di governo, in tutti i mille rivoli in cui questa si dispiega. Un compito oscuro, nel senso di non immediatamente utilizzabile sugli schermi dei mass-media, fatto per certosini piuttosto che per play boys, ma non lontano dalle attese dei cittadini, poiché nella maggior parte dei casi consistente nella difesa di diritti personali calpestati, magari anche involontariamente o inconsapevolmente, dai gestori del potere. Eccessi o, nei casi peggiori, abusi di potere di cui l’opposizione costituisce l’ultimo e talvolta il solo baluardo. Lo sanno bene i singoli cittadini ma anche quelle aggregazioni minori formatesi sulla base di comuni bisogni, le quali sono naturalmente portate ad instaurare un rapporto, oltre che col governo, con l’opposizione. E’ stato persino commovente stabilire, in tal modo, un radicamento capillare fra la gente, quello di cui ogni politico che intenda affermarsi alla guida della comunità ha bisogno.
Percepii ben presto che, per fare opposizione davvero efficace e politicamente significativa era necessario controllare l’attività di governo non sulla base di un paradigma astratto o, peggio, della propria concezione del bene comune bensì si trattava di far leva sulla concezione del bene comune che la parte uscita maggioritaria dal voto aveva proposto come propria e in base alla quale era stata investita del potere di governo da parte della comunità che a sua volta, con la scelta operata col voto, l’aveva fatta propria. In tal modo inchiodando l’una, la maggioranza, alla coerenza nella proposta e l’altra, la comunità, alla responsabilità nella scelta. Il tutto facendo costante e stretto riferimento al Bene e alle sue rappresentazioni. In buona fede.
Farsi opposizione vuol dire mantener viva e visibile l’alternativa. Il che non significa assumere sempre e comunque, immediatamente, un atteggiamento di rifiuto delle proposte governative, specie quando esse dovessero apparire giuste e convenienti al caso. L’eventuale accordo su di una scelta settoriale, tuttavia, o la convergenza su di una particolare iniziativa possono darsi solo sulla base e all’interno di un disegno strategico dialetticamente alternativo rispetto a quello della parte che ha la responsabilità di governo. Senza compromessi nella responsabilità gestionale, neppure per un malinteso senso della solidarietà nazionale, e tanto più senza cedimenti all’allettamento di sotterranei favori. Si tratta, in altri termini, di dare ai consociati una rappresentazione del bene che accomuna diversa e dialetticamente alternativa rispetto a quella datane dalla maggioranza di governo, nell’intento di fornire loro in ogni frangente della vita in comune e non solo una tantum, nel momento del voto, gli elementi per un giudizio autenticamente politico sul proprio stato: di cittadini o di sudditi. Qualcosa che certamente mancava nei casi a cui si riferiva il de’ Manzoni e nei molti altri più vicini a noi, nei quali ciò che sfuggiva era la coscienza della propria condizione, se di cittadini o di sudditi.
Così mi sono sforzato di fare e di farmi opposizione per quattro difficili anni, verificando nell’esperienza quotidiana il senso dell’enunciato teorico che quindici anni prima aveva sorpreso il mio simpatico recensore. "Il vero problema politico è costituito dal riconoscimento del bene comune, che poi altro non è se non il riconoscimento in comune del Bene". A superare le difficoltà oggettive di una opposizione che, in buona fede, voleva tenersi lontano dalla sterile polemica come dall’oscuro compromesso e le fragilità soggettive, a cui eravamo tutti sottoposti ma soprattutto quelli fra i compagni di opposizione che erano continuamente tentati dal doppio gioco delle fiammate polemiche e degli intrighi compromissori, mi ha aiutato riflettere su quanto stavo facendo alla luce di quanto avevo studiato. E nel difficile frangente credo d’aver meglio intesa la straordinaria lezione platonica sullo statuto e il compito della rappresentazione. D’altronde, qual è il primo compito del politico se non quello di rappresentare, nel senso di far presente, alla comunità il bene comune? Con la luminosa distinzione, tematizzata nel Sofista (233.a/236.c), tra e???? e f??tasµa.
In ogni processo rappresentativo due sono le vie percorribili. La prima è quella dell’icona, la buona rappresentazione, fedele alla sua natura, che non si confonde con la cosa di cui è rappresentazione e per la quale ineludibile è il problema del rapporto, di un giusto rapporto, con essa. La seconda è quella del fantasma, la cattiva rappresentazione, che tradisce la sua natura e, negando o dimenticando il rapporto con la cosa di cui è rappresentazione, si pone come l’unica, vera, realtà e rifiuta arrogantemente ogni problematizzazione. Se si riflette su questa distinzione platonica, che fa al caso nostro assai più di quanto non possa immediatamente apparire, si percepisce come sia essenziale per il funzionamento del regime politico, in quanto alle modalità di partecipazione del popolo alla configurazione e al perseguimento del bene comune, che i rappresentanti ne siano l’icona e non il fantasma. L’evento politicamente più rilevante di quegli anni, quello che è stato metaforicamente definito come "ribaltone", stava inequivocabilmente a confermarlo. Per spiegarlo, se non per giustificarlo, fautori e artefici del "ribaltone" si ostinavano a far riferimento all’art. 67 della Costituzione, ripetendo caparbiamente a tutte le obiezioni: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Formalisticamente escludendo la possibilità stessa di stabilire un confronto tra la volontà del popolo e quella dei suoi rappresentanti, quando era evidente a tutti che dal confronto, in quella particolare occasione, sarebbe inequivocabilmente risultata la distanza per non dire l’antitesi che vi era tra di esse. In tal modo, fautori ed artefici del "ribaltone", assumevano che non c’era popolo con cui confrontarsi al di fuori e al di là del fantasma dei suoi rappresentanti legali. Con quale livello di "riconoscimento in comune del Bene", si può facilmente arguire! Va detto, peraltro, che la malafede di questo assunto poteva trovare il conforto accademicamente autorevole della scuola ottocentesca di diritto pubblico e prima ancora di quella settecentesca di statistica.

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