PREFAZIONE ovvero della palingenesi di un testo
di Francesco Gentile

E’ proprio la res publica che cercavamo di avere e di fare presente, in un lavoro che in più d’uno intendevamo essere come quello dell’amanuense. Ricorderei i colleghi professori Gian Franco Ciaurro, olimpico consigliere di stato, e Aldo Loiodice, avvocato dall’inesauribile inventiva. Nella consapevolezza che, se non si fosse proceduto tempestivamente alla istituzionalizzazione di quella straordinaria intuizione popolare, da parte di quanti erano stati deputati alla gestione ordinaria della cosa pubblica, l’occasione del rinnovamento politico sarebbe andata perduta.
La relazione finale del Comitato è rimasta lettera morta, in una elegante brochure dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, ignorata dallo stesso sovrano committente, che nel frattempo era passato dal governo all’opposizione, peraltro continuando, di tanto in tanto, ad interessarsi di riforme costituzionali. Ma con risultati, com’è sotto gli occhi di tutti, sinora deludenti.
Riflettendo su questa esperienza, innegabilmente infelice ma assai istruttiva, m’è capitato più volte di riandare alla cinquantesima lettera di Seneca a Lucilio, nella quale si parla della vecchia Arpaste, che "non sa d’essere cieca e … dice che la casa è scura". Per concludere che si è ciechi assai più spesso di quanto non si creda.
Avendo sperimentato direttamente le difficoltà a cui si va incontro quando ci si trova implicati nell’impresa di riformare un testo costituzionale m’è venuto di guardare alle critiche alluvionalmente piovute sulla Costituzione del 1947, da tutte le parti, per tutti gli aspetti e secondo le motivazioni più diverse, con un certo distacco e disincanto, sicché ho potuto firmare con Pietro Giuseppe Grasso, che in realtà ha fatto tutto, quella curiosa e provocante raccolta di testi pubblicata sotto il titolo, il mio solo autentico contributo, di Costituzione criticata (Napoli, 1999). E ho maturato il convincimento che fosse da sciocchi pensar di rinnovare l’ordinamento politico a partire dalla riforma della carta costituzionale. E mi spiego.
Quando si è parlato, e si continua a parlare, di riforma della Costituzione, in realtà è alla seconda parte di essa che ci si riferisce, pur nella consapevolezza che non è questo o quell’espediente operativo a dar senso ad una riforma. E’ il disegno politico del rinnovamento nella sua globalità a costituire il terreno nel quale le operazioni hanno senso e possono riuscire. Sento già qualcuno suggerirmi, sommessamente ma tassativamente, che il disegno politico è già bello che scritto. Nella prima parte della Costituzione, che non deve essere toccata. Ebbene, anch’io sono giunto al convincimento che la prima parte della Costituzione non vada toccata, ma lasciata così com’è. Come un reperto storico, un fossile dell’esperienza repubblicana. Cinquant’anni di vita repubblicana, con tutto quanto è successo all’interno e attorno alla nostra Patria, oggi chiedono che essa sia, per così dire, "rimossa", perché con la sua ingombrante presenza costituisce l’ostacolo principale ad ogni utile riforma del nostro ordinamento politico. Per spiegarmi muoverei da una considerazione storiografica.
Quando nel corso dei lavori della Costituente si affrontò il problema della qualificazione dei diritti del cittadino (il discorso vale specificamente per quello che era l’art. 6 del progetto del Comitato dei 18 che sarebbe diventato l’art.2 della Costituzione ma in realtà ne investe l’intera prima parte), fra i tanti aggettivi emersi nei meandri della discussione, "imprescrittibili", "irrinunciabili", "incancellabili", "fondamentali", "essenziali", "eterni", "sacri", "originari", venne scelto l’anodino "inviolabili". Anodino e ambiguo l’aggettivo scovato nel vocabolario per qualificare i diritti del cittadino. Per un verso, infatti, esso non aggiunge nulla al sostantivo diritto, il quale di per sé designa un bene proprio di ciascuno non violabile dagli altri, per altro verso è mistificatorio nel contesto in cui è iscritto, cioè in un testo legislativo, sempre formalmente emendabile e quindi sempre sostanzialmente "violabile" da parte di chi "esercita la sovranità" nelle forme legalmente previste. Per il suo carattere paradossale, può essere ricordato l’intervento del costituente Concetto Marchesi, eletto nelle fila del Partito Comunista Italiano, il quale a proposito della libertà disse seccamente: "Non ci può essere data e tolta da nessun Governo", essendo "approdo supremo del proprio personale destino, che non può essere regolato né minacciato dalla legge". Più dell’accidentale opzione ideologica, nelle parole del maestro di letteratura latina, è riconoscibile il segno inconfondibile, benché in quel contesto contraddittorio, della classicità.
Invero, come risulta dagli atti, un altro aggettivo per i diritti del cittadino era circolato, più significativo e conveniente alla nostra tradizione giuridica, "naturali". Ma per il compromettente riferimento al concetto classico di "diritto naturale" i costituenti unanimemente, a prescindere dalla collocazione ideologica, decisero di non usarlo, taluni forse anche nella convinzione che il concetto, per essi, implicito della formula dei "diritti inviolabili" dovesse essere tematizzato in un preambolo alla Costituzione, che non venne peraltro mai neppure preso in considerazione dall’assemblea. Pur nella diversità, di straordinario interesse sono le analogie tra queste vicende costituzionali italiane e quelle evidenziate dalla visione problematica della Costituzione spagnola di Miguel Ayuso nel saggio El ágora y la pirámide.
Benché sia stato per debolezza teoretica, per pusillanimità, per compromesso che la formula dei "diritti inviolabili" è rimasta nel testo della carta, paradossalmente proprio per la sua vacuità, essa potrebbe divenire il punto su cui far leva per la rimozione di quello che è un autentico ostacolo al corretto funzionamento di una costituzione.
In quanto funzionale alla res publica, la legge costituzionale, che rimane pur sempre una legge cioè il prodotto della volontà di un sovrano, non la può definire con la sua durezza e precarietà ma la deve presumere come la ragione senza la quale essa stessa non avrebbe ragion d’essere. Giuseppe Ferrari ha scritto pagine illuminanti in proposito. Di qui si potrebbe prendere lo spunto per scrivere quel "preambolo" di cui all’alba della giornata repubblicana si avvertì l’esigenza senza sapervi dare soddisfazione. Come luogo teoretico prima che testuale in cui la res publica viene rappresentata nella descrizione sommaria di ciò che la comunità ritiene corrispondere al suum cuique. Senza di che, come ha acutamente osservato Danilo Castellano, inevitabili diventano "la decadenza della repubblica e l’assenza del politico".
Che se poi, nonostante le mutate circostanze, la lontananza dalla guerra civile, il tramonto della guerra fredda e l’esaurimento dello scontro ideologico, non si ritenesse maturo il tempo per il "preambolo", una soluzione potrebbe essere ricercata sul modello della Costituzione della Quinta Repubblica Francese, la quale, per quanto riguarda il complesso dei principi e dei beni che costituiscono la res publica, non ha una prima parte al modo di quella italiana ma riproduce, in calce al vero e proprio testo legislativo, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, come reperto archeologico della storia di Francia. In tal modo liberando il campo per quelle riforme che gli Italiani con il referendum del ’93 sulla legge elettorale della Camera dei Deputati hanno prefigurato senza possibilità di equivoco.
Sulla base di queste esperienze mi accingevo a riscrivere Intelligenza politica e ragion di stato, quando sono stato nuovamente trascinato "sulla strada di Siracusa".
Forse perché nel clima avvelenato e stagnante di "tangentopoli" si avvertiva il bisogno d’un po’ di "aria fresca", forse perché, di fronte ad una impresa che si presentava come disperata, gli "addetti ai lavori" ritennero preferibile esporre qualcuno "senza tessera di partito in tasca", nella primavera del 1995 venni candidato a fronteggiare il Sindaco uscente alle elezioni amministrative della città del Santo. Benché l’esperienza infelice, da cui ero appena uscito, mi rendesse dubbioso e le ragioni connesse al "particulare" mi facessero propendere per un commodus discessus, mi lasciai trascinare nell’avventura fondamentalmente da due motivi. Proprio quanto capitatomi nel Comitato mi aveva convinto che per rinnovare l’ordinamento politico bisognasse muovere dalla base, dall’ágora, posto che al vertice della piramide, per usare le immagini dell’amico Ayuso, troppi sono gli interessi alla conservazione ma anche i compromessi ritenuti inevitabili per "tirare avanti la carretta", sicché l’impegno diretto nella politica quotidiana di un Comune mi apparve come una provocazione tempestiva e salutare per un intellettuale aduso alla critica teorica. E poi, a chiedermi l’impegno nella nuova avventura vennero ancora una volta i miei allievi, alcuni fra i più vicini nella scuola di dottorato in filosofia del diritto. Dissi di sì e nonostantetutto non me ne pento.
Cinquantasettemilasettecentosettantun voti, pari al 39 % circa dei votanti, diecimila voti in più del secondo, il sindaco uscente, seimila voti in più delle liste di partito collegate alla mia candidatura, rappresentarono il risultato di una campagna elettorale condotta fuori dagli schemi abituali. Al programma/menu, predisposto per vellicare atomisticamente gli appetiti dei diversi gruppi di elettori, mi sforzai di elaborare un programma/quadro, concepito per collegare in un disegno unitario, in questo senso autenticamente politico, le diverse esigenze della città. Sconsigliato, beninteso, dagli art-directors, che i partiti collegati mi avevano messo alle costole. Ma tant’è. Il candidato ero io!
Nelle infinite, diversissime discussioni, nei mercati e nelle scuole, nelle canoniche e nei circoli, nelle tv, ovunque mi chiamassero, quale che ne fosse l’argomento, la mobilità cittadina o l’assistenza agli anziani, le economie esterne delle imprese o la rete dei parcheggi, l’apparato burocratico ecc., costringevo il dibattito specifico ad impegnarsi sulle grandi questioni politiche, quali la necessaria distinzione tra politico ed amministrativo, il coordinamento obbligato tra interessi particolari e bene comune, le sinergie tra privato e pubblico. In maniera non diversa da quella abitualmente seguita sui banchi di scuola o nella scrittura di un libro. E la gente sembrava seguirmi, appassionata all’architettura globale della proposta non meno che al singolo particolare. E d’altronde, in barba alle previsioni dei cinici secondo i quali al popolo non interessano se non panem et circenses, i risultati si sono visti. Sorprendenti e disorientanti i sostenitori prima e più che gli avversari. Solo a titolo di cronaca ricorderei come il partito della coalizione a cui si riteneva che io fossi più vicino sia passato dal 2.6% delle precedenti elezioni al 15.5%; sull’onda del successo, non ho fatto sufficiente attenzione alla cosa. La controprova è data dal fatto che, al secondo turno elettorale, quando della partita sono divenuti arbitri i partiti, con i loro accordi di potere a volte imprevedibili sempre arcani, come quello del caso tra cattolici democratici e democratici della sinistra, e i giochi apparvero fatti sulla testa dei candidati, almeno di quello "senza tessera di partito in tasca", la partecipazione al voto si ridusse di sedicimila unità, pari a più del 10% dell’elettorato. E mi ritrovai in minoranza.
I quattro anni che ho passato in Consiglio comunale, come leader dell’opposizione, sono stati per me un autentico "purgatorio" e a renderli tali ha contribuito chi mi era vicino almeno quanto chi mi era lontano. Ne ho tratto tuttavia una serie d’insegnamenti che credo di poter trasfondere a quanti prenderanno in mano questo libro, specificamente in relazione all’ordinamento politico di una comunità.

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