EUROPA.
MORTE E (RI)NASCITA
Andrea Favaro

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«Di fronte alla crisi degli Stati membri, per l’avvento dell’Unione, chi afferma la fine della politica in realtà rivela la propria vocazione a ridurre la politica a “ragion di stato”. Rimanendo vittima di un equivoco che peraltro gli impedisce di vedere come, teoricamente parlando, lo Stato membro sulla base della sovranità potrebbe sempre recedere dall’Unione, denunciando i trattati, e lo distoglie da quello che invece è, oggi in Europa, il primo e principale interrogativo politico: perché gli stati europei hanno scelto di rinunciare al principio di sovranità per costituire l’Unione Europea?»
(Francesco Gentile, Europa 2004).

Pare appropriato iniziare le brevi note introduttive al Numero presente con questo interrogativo, tanto attuale quanto dirompente. Peraltro un tanto potrebbe bastare… “senzaltro e nonostantetutto”.
Perché gli stati europei hanno scelto di rinunciare al principio di sovranità per costituire l’Unione Europea?”. Le risposte sono state di varia natura, ma molte risultano nelle loro formulazioni di fondo ostinate in una auto-giustificazione foriera di motivazioni già storiche (“mai più guerra nel Vecchio Continente”) e sempre più spesso economiche (“mai più piccoli in un mondo globalizzato”).
La speranza è che questa stessa domanda possa essere nuovamente assunta, oggi, con onestà intellettuale, eliminando le pressioni ideologiche che fremono sempre, e non solo sotterraneamente, e così inevitabilmente ricucendo, tra la trama e l’ordito, un dibattito che può palesarsi tale solo quando non conosce la meta ancor prima che le tesi (finanche contrapposte) comincino a confrontarsi.
Si tratta allora di rinvenire la (eventuale) sussistenza delle fondamenta di una istituzione in crisi, principiando sempre il ragionamento dalle radici.
Visto che spesso le analisi si sono concentrate sui temi istituzionali o quantomeno del c.d. diritto pubblico, senza giungere peraltro ad una soluzione condivisa, pare non vano deviare pure l’obiettivo dell’indagine verso ambiti che potrebbero apparire “eterodossi” e che forse, invece, costituiscono l’ossatura reale della situazione economico-istituzionale.

In questo solco offre un’autorevole testimonianza la disamina di Wolfgang Waldstein.
Innanzi tutto, con mente lucida e raro coraggio, l’Emerito dell’Università di Salisburgo (e già Professore a Innsbruck, nonchè Ordinario alla Pontificia Università Lateranense) pone quesiti e illustra questioni sui temi della “nascita” (e dell’aborto, come sua logica negazione) e della “morte” (e dell’eutanasia, come sua utopistica deviazione) derivandone critiche precise e forti sullo stato dell’arte moribondo del pensiero giuridico in Europa, oggi, e sull’apparente (ri)nascita di “appetiti” che vorrebbero dirsi “pretese”.
In secondo luogo le riflessioni del romanista e giusfilosofo austriaco garantiscono al Lettore, a loro modo, una prosecuzione tematica tra i vari numeri della Rivista, essendo il Waldstein l’unico giurista citato nel discorso offerto da Benedetto XVI al Reichstag di Berlin, in questa sede già presentato ed analizzato grazie al commento di John Anthony Carty.
Il numero prosegue ancora lungo l’imperituro crinale “vita/morte” grazie al contributo di Paolo Becchi dedicato al tema della eugenetica tramite l’analisi della posizione, arcinota ma non sempre adeguatamente compresa, di Hans Jonas. Vengono così offerti taluni spunti di riflessione avviluppati a una dimensione che procede oltre la sfera della bioetica, ammesso che questa possa veder riconosciuti dei confini certi, per accennare all’imprescindibile connubio che può essere riconosciuto nella ricerca jonasiana tra etica, ontologia e teologia.

Come molti ormai confermano, viviamo un’epoca caratterizzata da ideologie, che paiono essere anche “liquide” nelle loro pretese (e nei loro sussulti d’azione) quasi fossero moribonde, ma già in fase di ri-nascita. Tra queste, quella che oggi garantisce meno un approfondimento serio sulla crisi in corso (culturale o istituzionale, poco rileva) si caratterizza per il fatto di presentare mere “opzioni di forma” come fossero delle “scelte inevitabili” rendendo le stesse “indiscutibili”, come fossero novelli, mutuando una perifrasi nota in altri ambiti, “valori non negoziabili”.
Una negazione di giustificazione, che non può non essere oggetto di un approfondimento critico. Su tale binario prosegue anche in questo Numero la riflessione sul fondamento e l’attualità del regime democratico.
Innanzi tutto, tramite una riflessione sui temi quanto mai urgenti, anche nella penisola italiana (tra storia, identità e rinnovati confini), del “potere costituente” e della evidente contingenza di qualsivoglia forma di governo, riletti da Ferdinando Menga all’interno di una esplicita prospettiva fenomenologica nei loro tratti di “espressività e responsività”.
In secondo luogo, grazie ai non meno fecondi spunti offerti da uno dei giuristi italiani più attenti alla evoluzione tecnologica e alla probabilmente non separabile involuzione istituzionale. Viene, difatti, analizzata, comparata e discussa l’opera di Vittorio Frosini su “La democrazia nel XXI secolo” nella competente lettura offerta da Federico Costantini.
Un altro tra i più noti giuristi del secolo scorso, Giuseppe Bettiol, già presentato nella nostra “Galleria”, viene qui preso in considerazione grazie all’approfondimento di Mauro Ronco in merito alla concezione del “dolo” di cui è stato propugnatore, inevitabilmente palesando il riconoscimento della natura della persona umana, della sua libertà e quindi dell’atto di volontà di cui si rende testimone (e responsabile) nell’agire in una comunità.
Rinnovando, poi, uno degli scopi della Rivista, anche in questo numero ampio spazio è dedicato alla riscoperta di classici del pensiero le cui disamine molto hanno (ancora) da offrire al dibattito attuale. In tale prospettiva si offre una presentazione di Giambattista Vico e, in particolare, di alcuni suoi temi imperituri come il riconoscimento del “limite” e della natura antropologica insita nell’esperienza del giuridico (Reggio).

Piace pensare, infine, che lo sguardo del Vico probabilmente vigili pure sul presente di un contesto istituzionale che soffre, oggi ma forse non più di ieri, le “stimmate” di un percorso storicamente ordinato, ma non per questo, purtroppo, saldamente avviluppato ad un ordine che sia in grado di restituire, nonostante la mutevolezza di ogni tempo, garanzia di tenuta e contorni di identità.
D’altra parte, se è vero che l’attitudine del continente europeo è sempre stata quella di “specificare nel comune i diversi” è forse vero che la via per “riconoscere a ciascuno (soggetto umano o istituzionale, poco rileva) il suo” potrebbe palesarsi molto distante da quella che ha portato oggi ad una preannunciata implosione.
Per questi motivi, ammettiamo pure contingenti, si è giunti alla scelta di dedicare la Sezione che più di altre è vocata al confronto aperto e senza esclusioni di fendenti, ad una serie di fugaci riflessioni sul contesto ordinamentale di un continente che pare troppo vecchio (ma non parimenti saggio) per essere all’altezza di reagire dinanzi a pulsioni interne e più o meno suadenti richiami esterni; un “Pro et Contra”, quindi, che palesa in tutta la sua schiettezza un richiamo all’esigenza di una (ri)nascita dell’Europa tramite il riconoscimento delle sue autonome diversità al fine di riciclare una morte, sine infamia sine laude, di una istituzione dai piedi di argilla, che corre il rischio di sperimentare la “farsa del terrorismo”, imporre (ad alcuni soggetti) “tempi difficili” e deviare (altri) ordinamenti vigenti, negando peraltro il rischio (finanche colpevole) della politica in virtù dell’efficacia (già saintsimoniana) della tecnica.