IL PENALISTA DI FRONTE ALLE SCELTE DI FINE VITA [1]
di Giovanni Caruso
Università degli Studi di Padova
[34] Per la verità, tale disposizione ha subito un sostanziale emendamento nel corso della prima lettura della Camera.
[35] Sul punto, si pensi alla posizione critica assunta da Giuliano Ferrara, in vari interventi apparsi sul quotidiano dal medesimo diretto: cfr. Perché non ci piace la legge sul testamento biologico in arrivo alla Camera, editoriale del Il Foglio 24 febbraio 2011: “è in sé pasticciata e contraddittoria una legge in cui si dice al cittadino: fa’ pure testamento, ma sappi che non sarà vincolante, e che su due punti cruciali come l’idratazione e la nutrizione artificiale di persone in stato vegetativo, la tua volontà non può essere ascoltata. Non credo nell’autodeterminazione come mito moderno. Ma credo nell’autonomia della persona, specie in fatto di libertà di cura, e penso che la vita indisponibile debba essere accudita dal soggetto interessato, finché e come può, e dai suoi cari. Meglio un prete, una donna, un compagno affettuoso, gli occhi di un bambino o la barba di un filosofo al mio capezzale, piuttosto che il documento di un legislatore. Qualunque cosa sia scritta in quel documento, e peggio ancora se ci sia scritto che la mia volontà non vale o è solo una impotente funzione consultiva. Suggerisco ai deputati del centrodestra di ripensarci”. La posizione di Ferrara sembra avvicinarsi a quella espressa nel corso del dibattito al Senato dal senatore Marcello Pera, il quale dichiarando voto contrario al disegno di legge in contrasto col gruppo di appartenenza, suggeriva un modello di decisione svincolato da una puntuale disciplina legislativa, e connesso al concetto di cd. comunità solidale: “Vi prego di considerare una situazione ipotetica di questo tipo, anche se tutti sanno per esperienza che è per niente ipotetica e tragicamente attuale: un paziente in stato vegetativo permanente […] quello per il quale si dice che non c’è più speranza, non c’è più niente da fare. Ovviamente, in senso biologico questo paziente è in vita e in senso etico e giuridico quel paziente è una persona che gode dei relativi diritti inviolabili. Io chiedo, però, in un caso simile, si compie accanimento continuando il mantenimento in vita o si compie eutanasia interrompendolo? In altri termini: si commette un crimine contro la vita, inviolabile, lasciando morire il paziente oppure si commette un crimine contro la persona, anch’essa inviolabile, alimentandolo forzosamente? Io credo che, se cerchiamo di essere onesti, dobbiamo concludere che a questa domanda non c’e` risposta. Occorre una decisione. Il testo che stiamo per approvare dice che questa decisione equivale a dire che bisogna comunque salvare la vita. Il testo dice anche che questa decisione la deve prendere il legislatore, il Parlamento, noi. Io credo che questo sia costituzionalmente e anche eticamente sbagliato […]” poiché affida “una decisione che è tipicamente etica, personale e particolare ad un obbligo giuridico che è generale ed astratto e che vale per tutti i casi”; inoltre, “essendo la casistica indefinita, se non infinita, la norma – nemmeno quella che stiamo per approvare – non riuscirà mai a coprirla tutta. Chi insegue oggi il caso Englaro domani dovrà inseguire il caso Rossi e poi quello Verdi e così via. Colleghi, questo è il motivo per cui mi oppongo a questo disegno di legge. Infatti, dopo aver detto «no» all’eutanasia – siamo tutti d’accordo –, «no» all’accanimento terapeutico – siamo tutti d’accordo – accade che quello spazio e quella zona grigia incerta, che inevitabilmente si crea tra questi due divieti, vengono coperti da una decisione che non è giuridica, ma morale. La situazione che ho in mente è molto semplice. Al letto di quel paziente si forma una piccola comunità: c’è il paziente stesso, che non ha più coscienza ma ancora la sua dignità da rispettare, e poi c’è un suo familiare (una moglie, un marito, un padre o un figlio) che ancora lo ama, lo rispetta, ne ricorda le idee e magari ne ricorda le volontà; c’è poi un amico carissimo di tutta una vita con i suoi ricordi e con i suoi affetti; c’è ancora un sacerdote che magari lo conosceva benissimo, lo assisteva, lo illuminava e guidava; e naturalmente, infine, c’e` un medico. Questo gruppo di persone, tutte assieme al capezzale di quel paziente, non fanno un’alleanza terapeutica – altro concetto di cui non c’e` alcun bisogno –, quel gruppo di persone fa una comunità solidale; è una comunità familiare, umana, civile, scientifica e religiosa al tempo stesso. È questa comunità che, sapendo che non può né procedere all’eutanasia né procedere all’accanimento terapeutico, può e deve prendere la decisione migliore senza cavilli di legge e senza Azzeccagarbugli. A me pare che così ci sarebbero più libertà, più responsabilità, più tutela e rispetto della vita e della dignità e – se mi e` concesso – , proprio per i laici a cui ciò interessa, a me pare che in situazioni di quel genere ci sarebbe anche un po’ più di carità cristiana”.