IL PENALISTA DI FRONTE ALLE SCELTE DI FINE VITA [1]
di Giovanni Caruso
Università degli Studi di Padova
[18] Art. 54 c.p.: “Stato di necessità: Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo”.
[19] Art. 52, c.p.: “Difesa legittima: Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.
Nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o la altrui incolumità;
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.
La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.
[20] Art. 610, c.p.: “Violenza privata: Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’art. 339”.
[21] Cfr. LAING R.D., L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Torino, 2001, 115. Parole che conducono ad interrogarsi su quanto il comprendere l’altro, non in senso esclusivamente emotivo o esclusivamente razionale, sia un fondamento importante delle relazioni umane. Sarebbe però troppo riduttivo, pur nella sua accezione generale, associare questa “comprensione dell’altro” al termine ‘empatia’. L’‘empatia’ è infatti un costrutto che va più in profondità, che implica alcunché di più difficile attribuzione. In greco il termine “empatheia” (passione) stava a definire l’ingresso nella sofferenza di un’altra persona fino ad identificarsi con lei. Gli autori romantici tedeschi del XIX secolo (Herder e Novalis) coniarono il termine “Einfühlung” (letteralmente immedesimazione) per descrivere l’esperienza di fusione dell’anima con la natura, concepita quest’ultima quale flusso vitale e spirituale. E’ però nell’ambito della fenomenologia che l’‘empatia’ diviene vero oggetto di studio. Fu la filosofa Edith Stein ad approfondire tale ricerca ponendosi in antitesi al dualismo cartesiano. La ricerca filosofica contribuì alla sua conversione dal credo ebraico al cattolicesimo fino alla scelta di entrare nell’ordine delle Carmelitane col nome di Teresa Benedetta della Croce, canonizzata nel 1998 da Papa Giovanni Paolo II; per le sue origini ebraiche fu internata dai nazisti e morì ad Auschwitz nel 1942. La Stein fu allieva di Husserl e ottenne il dottorato in filosofia all’Università di Friburgo nel 1916 discutendo la tesi “Sul problema dell’empatia”; sul punto cfr. STEIN E., Das Einfühlungsproblem in seiner historischen Entwicklung und phänomenologischer Betrachtung, dissertatie, Freiburg im Breisgau, 1911; secondo la Stein per ‘empatia’ era da intendersi l’atto mediante il quale la persona si costituisce attraverso l’esperienza dell’alterità, cioè del rapporto con l’altro. Per usare le sue parole “l’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di ‘altro’, di ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci sposta altrove, nell’ignoto, diventa elemento dell’esperienza più intima cioè quella del sentire insieme che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto”. Sul punto, di recente, per la distinzione tra ‘compassione’ ed ‘empatia’, cfr. NUSSBAUM M.C., L’intelligenza delle emozioni, Bologna, 2004, spec. 393-403.
[22] Per uno sguardo complessivo delle implicazioni teoretiche della finitudine e della sofferenza umane, tra paradigma tragico e giudaico-cristiano, cfr. il bellissimo studio di NATOLI S., L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano, 20063, 1-387.
[23] Semmai, ci si dovrebbe interrogare su cosa significhino ‘vita e morte naturali’, distinguendo i casi in cui non è la vita a essere prolungata, ma la morte a essere tecnologicamente ritardata. D’altra parte, che le scelte di fine vita siano un portato della pretesa tecnologica di infiltrarsi nelle dinamiche esistenziali costituisce acquisizione pacifica della cultura contemporanea. Sul punto, cfr. AMATO S., Esiste un dovere di curarsi?, in Rinuncia alle cure e testamento biologico, cit., passim.
[24] Laico non vuol dire affatto, come sempre più spesso si ripete, l’opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente, né un ateo, né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis: è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato; per l’individuazione delle origini etimologhe e concettuali della laicità, cfr. BENEDETTI U., L’interpretazione della laicità, in AA.VV., Laicità nella Chiesa, Milano 1977, passim; MONTEVECCHI O., Laos. Linee di una ricerca storico-linguistica, in Aa.Vv. Papyrologica Bruxellensia, 19, Bruxelles 1979, 51-67; DI LUCA G., Il cristiano laico. Verso una nuova maturità, Roma 1989, 105-125; LAZZATI G., Il laico, Roma 1986, 9-23.
[25] Afferma, invece, la diretta derivazione causale della morte dalla condotta del medico la sentenza, Cfr. G.u.p. Trib. Roma, 23 luglio 2007, Riccio, cit., 66.
[26] Per tale interpretazione, cfr. VIGANÒ F., Esiste un ‘diritto ad essere lasciati morire in pace’? Considerazione in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 2007, 5 ss., spec. 7.
[27] Cfr., sul punto, lo studio antropologico di ARIES P., Storia della morte in occidente (1978), rist. Milano, 2006, passim.
[28] Cfr. PAREYSON L., Heidegger: la libertà e il nulla, cit., 44; cfr. ancora ID., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, 2000, passim, spec. 30-31: “Tutto fugge e perisce, ma c’è una cosa indistruttibile, definitiva ed eterna: che ciò che è stato è stato. Un evento non si lascia né trasportare né travolgere né cancellare dal flusso universale. Ha due caratteri fondamentali: il primo, l’imprevedibilità; il secondo, l’irrevocabilità […] Un evento […] non è preceduto che dal nulla, e in ciò risiede la sua libertà”. Dopo la prima stagione esistenzialistica, Pareyson si volse con divorante passione a Dostoevskij e al tema del ‘male in Dio’, rimanendo tributario di una concezione in cui la libertà emerge come lampo iniziale, originario, infondabile e infondato dall’abisso del nulla, nel rischioso assunto per cui “si può fare della libertà un problema autentico solo se la si rapporta al nulla”; così PAREYSON L., Heidegger: la libertà e il nulla, Napoli, 1990, 29.
[29] Cfr. JASPERS K., Psicopatologia generale, Roma, 1964.
[30] Cfr. PAVAN L., L’identità fra continuità e cambiamento, Milano, 2002, 21.
[31] Cfr. TATOSSIAN A., Phenomenologie des psychoses, Paris, 1979.
[32] Testo che, in effetti, ha subito importanti emendamenti nel passaggio, ancora in itinere, alla Camera dei Deputati.
[33] Che nella morte degli individui in SVP non vi sia più niente di naturale, inoltre, è provato dal fatto – ribadito da una recente ricerca – che nel 62% dei casi di fine vita che si verificano nei reparti ospedalieri del nostro Paese i medici praticano la cosiddetta “desistenza terapeutica”, ovvero interrompono le cure, prescindendo perlopiù dalla volontà dei pazienti. Si tratta di casi – come lo SVP – in cui i pazienti non rispondono più in alcun modo ai trattamenti, o per i quali le macchine possono solo rinviare la morte acuendo agonie o sofferenze. In queste condizioni i medici rinunciano a “curare”, ottemperando così tra l’altro a quanto previsto dall’art.16 del nuovo Codice di deontologia medica (16.12. 2006): “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della sua vita” . Ciò significa che il momento della morte non è più appannaggio della “natura”, ma il prodotto di scelte e convenzioni umane. Se così è, d’altra parte, occorre concludere che l’alternativa in gioco a proposito dei pazienti in SVP non è più tra seguire la natura o l’artificio, ma tra un artificio e l’altro, ovvero tra dare la priorità alle scelte e decisioni dei medici o a quelle dei pazienti (o di chi ne sia stato nominato legale rappresentante). Al fautore della indisponibilità della vita che si appella al “lasciar morire naturalmente” i pazienti in SVP sfuggono i dilemmi nati con le nuove circostanze del morire. Il risultato è che di fatto egli finisce col legittimare il paternalismo medico, affidando alle decisioni del personale sanitario quei processi che – a suo dire – dovrebbero essere gestiti dalla natura o dalla Provvidenza.