IL PENALISTA DI FRONTE ALLE SCELTE DI FINE VITA [1]
di Giovanni Caruso
Università degli Studi di Padova
[11] Il movimento per l’assoluta autonomia, che pretende di attribuire al singolo il «diritto» di vita e di morte, trova alimento nel rifiuto del processo naturale della morte, che induce a due atteggiamenti irrealistici di segno opposto. Il primo sopravvaluta il potere della scienza e della pratica medica allo scopo di procrastinare il momento finale della vita. Il secondo, allo scopo di cancellare dall’orizzonte esperienziale il processo naturale del morire, pretende di anticiparne il momento, che si vorrebbe provocare artificialmente non appena la vita non può essere più vissuta secondo standard di qualità fissati alla luce di criteri utilitaristici ed edonistici. Una pretesa siffatta si avvale dei mezzi della medicina, secondo fini contrari, però, alla sua natura e alla sua intrinseca finalità. Il rifiuto del processo naturale verso la morte è caratterizzato da una hybris dell’intelligenza, che sfocia in una volontà di potenza, intenzionalmente sovvertitrice della realtà, quasi che l’uomo potesse sottrarsi alla sua essenziale finitudine. Dal rifiuto della condizione umana scaturiscono due atteggiamenti opposti quanto agli effetti: l’idolatria della salute, per un verso, e la liberazione dalla vita, per un altro verso, quando la salute più non possa essere piena e totale, soddisfacente secondo standard socialmente accettati. Questi atteggiamenti di fronte al processo della corruzione fisica e psichica non afferiscono soltanto alla valutazione della vita nelle sue fasi terminali, quando ormai la patologia si è sviluppata fino a rendere tenuissimo il filo dell’esistenza, ma anche alla valutazione di fasi della vita di gran lunga antecedenti, proponendo un salutismo e un efficientismo fisico esasperati, che impediscono l’equilibrato sviluppo della personalità. Lo sguardo va alla pretesa di conservare a tutti i costi determinate funzionalità o determinati aspetti esteriori del corpo. In molti snodi dell’attuale pratica medica si è insinuato un accanimento pseudo-terapeutico che vuole sconvolgere i ritmi naturali cui è soggetta l’esistenza fisica dell’uomo e della donna. La chirurgia estetica si presenta come una forma di accanimento medico per sostituire un’età artificiale all’età anagrafica. La stimolazione farmacologica dell’attività sessuale maschile; la protrazione della funzionalità riproduttiva della donna attraverso la posticipazione della menopausa, etc.
[12] Desta un particolare interesse l’itinerario tra ‘paternalismo medico’ vs. primato volontaristico nei rapporti tra medico e paziente segnato da AMATO S., Esiste un dovere di curarsi?, in Rinuncia alle cure e testamento biologico, a cura di FURNARI M.G., RUGGERI A., Torino, 2010, 24 ss. L’Autore sottolinea il risalto paradigmatico assunto, nel delineare i due diversi accostamenti del sanitario al paziente, rispettivamente da due diverse visioni della salute e della medicina, rispettivamente qualificabili come ‘oggettiva’ e ‘soggettiva’. La prima, nata nella temperie culturale dell’ottocento senza avere nulla a che vedere con le questioni di fine vita o con il problema della sofferenza, è strettamente legata allo statuto della medicina all’interno del paradigma scientifico, e cioè al tentativo di costruire la medicina integralmente su metodo empirico, presentandola come un sistema coerente e strutturalmente indifferenziato che si sviluppa nei laboratori e si trasmette nei manuali. In tale quadro, con la scienza, la medicina deve condividere “l’irresistibile potere dell’evidenza” (così BERLIN I., La libertà e i suoi traditori, Milano, 2002, 55) e, quindi, di riflesso quel dispotismo intellettuale che erige il medico, come qualsiasi altro scienziato, a dominatore assoluto entro il proprio orizzonte di conoscenze, contribuendo ad edificare un mondo pieno di malattie senza malati, zeppo di sintomi ma povero di dubbi, aggrappato agli ‘standards’ e refrattario alle sensazioni. Straordinariamente efficace nel delineare tale accostamento autoritario del medico al paziente, Michel Foucault affermava: “Per conoscere la verità del fatto patologico, il medico deve astrarre il malato dal corpo, non deve prenderlo in considerazione che per metterlo tra parentesi e liberare sotto lo sguardo medico la natura e la combinazione dei sintomi, della crisi e delle altre circostanze che accompagnano la malattia” (FOUCAULT M., Nascita della clinica, Torino, 1969, 20 ss.). In questa prospettiva, la salute appare anzitutto un dovere, un dovere di ubbidienza ai dettami di un sapere tendenzialmente indiscutibile proprio perché certo: se il malato non ha alcuna legittimazione scientifica per opporsi la medico, non ha nemmeno alcuna legittimazione etica per opporsi alla terapia. Con la conseguenza che il dovere di curarsi lascia i libri e l’impegno dei medici per passare a condizionare l’esistenza dei malati, per divenire dovere di curarsi. La seconda visione della salute, invece, trae origine dalla tragedia delle sperimentazioni nei campi di sterminio, con i deportati descritti brutalmente come cavie, i loro corpi come apparati e la loro morte come interruzione meccanica del funzionamento. Così, se il Codice di Norimberga affiderà la dignità di ogni uomo alla centralità del consenso informato, l’Organizzazione mondiale della sanità (World Health Organisation) costruirà la salute come un diritto fondamentale, al pari del diritto alla vita, alla casa, al lavoro, all’istruzione, alla partecipazione politica. Questo diritto, in effetti, entra a far parte del tessuto costituzionale di molti paesi (ormai più di cento), come un diritto a carattere prevalentemente sociale che riguarda gli obblighi dello Stato di garantire un’assistenza di base gratuita e in ogni caso accessibile alla maggior parte della popolazione. Successivamente, tuttavia, con il crescere della complessità delle scelte terapeutiche, assume un carattere sempre più soggettivo, divenendo uno dei corollari fondamentali del diritto di autodeterminazione. Anche il nostro art. 32 Cost. ha evidentemente subito tale torsione ermeneutica al mutare del contesto storico di riferimento.
[13] È opportuno differenziare il principio di «non maleficità», «primum non nocere», dal principio di «beneficità», perché il primo obbliga tutti in modo primario, e quindi precede qualsiasi tipo d’informazione e di consenso. Che il medico non possa arrecare alcun danno al paziente è principio incondizionato, onde non è lecito arrecargli un danno — per esempio, la morte — anche se il paziente lo chiede. Le due parti del principio — non maleficità e beneficità — sono documentate nel giuramento d’Ippocrate (460-377 a.C.) e costituiscono il fondamento della medicina in Occidente. Come si vedrà nel testo, il giuramento di Ippocrate è stato stigmatizzato, con sempre maggior vigore a partire dagli anni 1970, come la base del «paternalismo». È pacifico, comunque, che almeno il principio di non maleficità non possa essere tacciato di «paternalismo». Tale principio risulta in modo particolare al n. 2 del capitolo secondo, La terapeutica, del giuramento: «Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere. Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire, ma serberò casta e pura da ogni delitto sia la vita sia la mia arte» (cit. in DIEGO GRACIA GUILLÉN, Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, trad. it., con Prefazione di Sandro Spinsanti, San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 1993, 58). Il principio di beneficità, che sottende peraltro l’intero giuramento, è espresso in modo particolare al punto 1 del capitolo secondo di esso, ov’è detto che «[…] difenderò [i malati] da ogni cosa ingiusta e dannosa» (cit. ibidem). Cfr. un’ampia informazione, ibid., 32-88.
[14] Cfr. MARNIGA B., Per una revisione critico-filosofica ed epistemologica della medicina contemporanea, in Medicina e morale. Rivista di Bioetica e Deontologia medica, nuova serie, anno XLVIII, n. 5, Roma, settembre-ottobre 2008, 989 ss., spec. 999.
[15] Ibidem.
[16] Cfr. RONCO M., op. cit., 21.
[17] Come noto, vi sono stati diversi tentativi di offrire una definizione di accanimento terapeutico. In un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Roma 1996) si legge: “Trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”. In questa definizione sono presenti tre elementi principali : 1) la documentata inefficacia e quindi l’inutilità (o, nei termini della letteratura bioetica anglosassone, la futility); 2) la gravosità del trattamento e infine 3) l’eccezionalità dei mezzi terapeutici. Per meglio comprendere quali comportamenti, nella realtà clinica, potrebbero ricadere nella definizione proposta dal Comitato facciamo un esempio concreto. In un paziente operato di un tumore maligno del polmone si manifesta, a distanza di qualche mese, una metastasi a carico della colonna vertebrale che comprime il midollo spinale e provoca la paralisi degli arti inferiori e della vescica oltre ad intensi dolori. Questa situazione è gravemente invalidante ed è causa di dolore e sofferenza, ma di per sé non conduce a morte. Una tempestiva irradiazione della colonna vertebrale nel punto malato attenua i dolori senza risolvere la paralisi. Mettiamo ora che, a seguito di un cateterismo vescicale, reso necessario dalla paralisi, subentri una grave infezione con setticemia. Il malato è altamente febbrile e a rischio di vita. Se non trattato tempestivamente con terapie antibiotiche mirate e a dosi massicce è probabile che vada incontro alla morte. Se viene trattato secondo le regole dell’arte, ha buone probabilità di guarire dall’infezione e di sopravvivere per qualche settimana o magari per qualche mese, ma sempre paralizzato e sopportando intensi dolori e il disagio di altre complicazioni dovute alla paralisi degli arti inferiori. Molte persone sarebbero inclini a pensare che la somministrazione degli antibiotici rientri nella categoria dell’A.T., in quanto il suo risultato consente sì di prolungare la vita, ma rischia di aggravare-prolungare la sofferenza del malato; eppure così non è alla luce dei criteri del CNB. Infatti la terapia antibiotica 1) è molto probabilmente efficace, 2) non è di per sé particolarmente gravosa e da ultimo 3) non è affatto eccezionale. Vediamo un secondo esempio. La metastasi vertebrale del paziente è situata ad un livello molto alto, cioè nelle prime vertebre cervicali. Essa comporta non solo la paralisi non solo degli arti superiori, ma dei quattro arti e dei muscoli respiratori: il paziente è a rischio immediato di morte per insufficienza respiratoria. Che cosa può fare il medico? Può sottoporre il malato ad intubazione tracheale ed iniziare una ventilazione meccanica permanente. È chiaro che la qualità di vita del paziente si deteriora ulteriormente: egli non sarà in grado di muovere agli arti, non potrà parlare (a causa del tubo tracheale) e non potrà sopravvivere se non collegato al ventilatore. Si tratta di AT? La maggior parte di noi sarebbe portata a rispondere affermativamente, ma – sempre alla luce dei criteri del Comitato – ciò è per lo meno discutibile. Infatti l’assistenza ventilatoria in questi casi è sicuramente efficace (essa può consentire una sopravvivenza di qualche settimana o di qualche mese), anche se è certamente gravosa e probabilmente eccezionale (ma oggi meno che in passato: il paziente potrebbe tornare a casa con un piccolo ventilatore portatile). Anche in un caso estremo come questo, dunque, non tutti i criteri dell’AT sono soddisfatti. Non stupisce perciò che, ad onta della generale riprovazione dell’AT che possiamo leggere sui documenti e sui testi di bioetica del nostro Paese, quella “cosa” che viene designata come AT sia regolarmente praticata in tutti gli ospedali italiani. La definizione contenuta nella versione del 1995 del Codice deontologico dell’Ordine dei Medici all’art. 13 sembra essere più aderente alla realtà clinica. L’articolo in questione recita: “Il medico deve astenersi dal cosiddetto accanimento diagnostico-terapeutico, consistente nella ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita”. In questa definizione è contenuto in sostanza solo un criterio: l’inefficacia in relazione all’obiettivo del beneficio del paziente. Pur nella sua genericità, nella definizione del Codice ricadrebbe per lo meno il nostro secondo esempio, se non anche il primo. Entrambe le definizioni hanno un punto in comune: esse tentano di definire l’AT in modo oggettivo. Il loro intento è chiaro: permettere ai medici di individuare autonomamente comportamenti che, configurandosi come AT, siano da evitare. Resta però un grave problema irrisolto: dato che i concetti di beneficio e di qualità della vita non possono prescindere dalla soggettività del malato, una definizione strettamente oggettiva di AT si avvera impossibile. La recente revisione del Codice del 2006 cerca di tener conto di ciò; l’articolo 16 recita infatti: “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse (il corsivo è mio), deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”.