IL PENALISTA DI FRONTE ALLE SCELTE DI FINE VITA [1]
di Giovanni Caruso
Università degli Studi di Padova

Tuttavia, quella richiesta, maturata nel confronto che sostanzia l’alleanza terapeutica fra medico e paziente, fa venir meno la posizione di garanzia del medico, e, con essa, la causalità normativa tra condotta omissiva ed evento espressa dalla formula di equivalenza del ‘non impedire’ al ‘cagionare’ prevista dall’art. 40, co. 2 c.p.: il medico non cagiona più alcunché, poiché non vi è nulla di più naturale della morte che sopraggiunge quando la vita ha ormai finito il suo corso. Nulla più può o deve impedire.

In conclusione, l’espressione del dissenso del paziente rispetto alla prosecuzione delle cure produce l’effetto di neutralizzare la posizione di garanzia rispetto al paziente. Da tale angolazione, la conseguenza, sul piano penalistico, è che viene a mancare il nesso di causalità normativo disciplinato dalla clausola di equivalenza del ‘non impedire’ al ‘cagionare’ prevista dall’art. 40, co. 2, c.p. Con l’ulteriore conseguenza che, nel caso di Piergiorgio Welby, viene a fare difetto la stessa tipicità del fatto, ben prima della non punibilità del fatto, tipico e antigiuridico.

11. In relazione al caso Englaro, poi, si deve riconoscere che un’alleanza tra medico e paziente non si è potuta instaurare.

A me pare che la ragione, in questo caso, si sia direttamente installata, o abbia tentato di installarsi, nel rapporto dialogico non tra medico e paziente, ma tra il tutore della donna, nella persona del padre, Beppino Englaro, e la magistratura, impegnati a ricostruire, attraverso la rilettura della vita trascorsa da Eluana nei primi diciannove anni di esistenza vigile e cosciente, i segni dai quali inferire ciò che ella avrebbe ‘voluto’ se avesse ‘potuto’, ciò che avrebbe ‘detto’ se avesse ‘ascoltato’. Ne sono scaturite accese polemiche tra le diverse aree culturali del Paese, spesso  lato sensu laiche e cattoliche, forse spesso inquinate da un eccesso di pregiudizi ideologici.

In verità, credo che l’interesse intellettuale alla vicenda Englaro dovrebbe essere più rivolto alle implicazioni filosofiche dello stato esistenziale vegetativo della donna piuttosto che alla soluzione delle pur complesse, e forse insolubili, incertezze giuridiche.

Quell’interesse si è alimentato assistendo a una peculiare raffigurazione mediatica: una fotografia ritraente una bella ragazza, colta nell’atto di esibire un sorriso candido di gioia, con lunghi capelli corvini a incorniciarne la fronte, il volto e il collo. Quella è la donna della cui morte imminente si era da tempo discusso ai diversi livelli della società civile? Quella sarebbe la donna alla quale un padre insensibile avrebbe voluto impedire di ‘bere’ e di ‘nutrirsi’? Quella bellezza si sarebbe deciso di stroncare senz’appello?

Drammaticamente, le cose non stavano certo così.

Chi era, Eluana Englaro, negli ultimi anni di alimentazione e idratazione artificiali? C’era ancora un’identità personale di Eluana?

Non rientra certo nelle mie competenze offrire un quadro adeguato di cosa si intenda per identità personale. La questione affonda le radici nelle convinzioni religiose, nonché nei saperi della psichiatria e della filosofia molto più che non nel diritto o nella biologia medica.

Dal versante del credente, è ovvio, l’identità personale sussiste sempre, anche dopo la morte, addirittura come unità di spirito e di corpo per la resurrezione della carne. Ma in questa prospettiva non può che soccorrere il dono e il mistero della Fede, di cui, tuttavia, non tutti beneficiano.

Sul fronte filosofico, è noto come dal naturalismo ingenuo, secondo cui l’identità sarebbe stata contrassegnata dall’irripetibilità corporea, ci si sarebbe poi indirizzati verso la soluzione del nodo concettuale sul piano mnemonico, secondo cui la memoria, quale corredo di ricordi correlati al flusso unicum di vita, avrebbe coagulato il senso profondo dell’identità.

I due tentativi di chiarificare il senso dello statuto identitario sono tuttavia falliti.

Il primo, per la consapevolezza della dissociazione esistenziale tra corpo e identità al momento della morte: una lunga tradizione della liturgia della morte occidentale, e cioè la veglia del corpo durante la notte [27] ,  ha stimolato la riflessione sulla continuità identitaria tra il caro congiunto ancora in vita e il suo corpo esanime, inespressivo, posto sul feretro circondato da luci soffuse di candele. Il tentativo di spiegazione è fallito chiaramente: quello è il corpo, ma l’identità non c’è più.

Si è scorto quindi il significato dell’identità personale sul piano del corredo mnemonico che, arricchendosi nel corso del tempo, avrebbe cristallizzato un unicum identitario, diverso da tutti i ricordi degli altri e tale da garantire pienamente l’integrità identitaria, intesa quale effettiva corrispondenza dell’Io al plesso di ricordi che ne hanno forgiato l’esistenza. Ma anche tale accostamento è fallito, una volta maturata la consapevolezza che l’individuo immagazzina una parte infinitesima dei ricordi, attraverso una selezione dei medesimi non sempre perspicuamente descritta dai neurologi, con deselezione o scarto della grande maggioranza dei medesimi quali cascami irrilevanti di esistenza.

La riflessione filosofica è culminata con la prospettiva esistenzialistica, secondo cui l’identità personale si forma nel corso del tempo, attraverso le scelte personali, per cui io oggi ‘sono’ le mie scelte, quello che esse, forgiandomi, mi hanno fatto diventare, alla luce dei caratteri della scelta libera che Luigi Pareyson, straordinario esponente dell’ontologia della libertà del ‘900, ha magistralmente tracciato: l’originarietà prima, il suo ‘primo sbocciare’, e l’irretrattabilità [28] . I penalisti lo sanno bene. È l’esercizio della libertà, capitalizzatosi come stemma o stigma nel corso della storia esistenziale individuale, che contrassegna l’individualità: il delitto non si cancella, ti segue, non si ritratta; tuttavia ti forma, contrassegna la tua identità, te lo porterai dietro, come dolce rovello, rimorso o rimpianto.

Sul piano specificamente psichiatrico, poi, l’identità è stata definita come consapevolezza di un’identità separata, per cui, per dirla con Karl Jaspers, “i miei processi psichici mi appartengono” [29] , che implica , al contempo, che “sul senso della propria identità si inserisca una consapevolezza di sé […] intesa non tanto come una entità psichica autonoma, cioè come una vera struttura psichica, o una realtà essenziale, quanto come una funzione fondamentale che organizza ed orienta un campo di significati” [30] . In definitiva, la soggettività umana implicherebbe una dialettica fra l’identità con se stessi, il cd. ‘Io narrante’ di Paul Ricoeur: l’identità umana, per essere tale, deve essere raccontabile dal suo protagonista [31] .

Se ci si pone in questa prospettiva, sembra che secondo nessuna delle sopra descritte declinazioni dello statuto identitario, eccettuata quella del credente, possa ancora riconoscersi che l’Eluana della prima fotografia fosse ancora tra noi al momento della morte.

12. Il caso di Eluana ha richiamato l’attenzione politica del Legislatore sulla necessità di predisporre un testo di legge sul cd. testamento biologico, oggetto di note polemiche politiche durante gli ultimi mesi di attività parlamentari.

Per svolgere le riflessioni conclusive sul tema, è utile riportare una breve nota comparatistica, considerando alcune parti delle premesse al disegno di legge tedesco sulle Disposizioni del paziente (in tutto 2 articoli più un terzo sull’entrata in vigore), presentato alla fine del 2008 da un numeroso gruppo bipartisan di parlamentari tra i quali anche Angela Merkel [Entwurf eines Gesetzeszur Klarstellung der Verbindlichkeit von Patientenverfügungen (Patientenverfügungsverbindlichkeitsgesetz – PVVG); il Progetto, riveduto con altre proposte connesse dalla Commissione Giustizia del Bundestag, è stato approvato il 18 giugno 2009 ed è entrato in l’1 settembre 2009]: un attento, essenziale intervento inteso a rispettare e valorizzare, precisandoli, i principi già elaborati dalla giurisprudenza e dalla Corte costituzionale tedesca.

Questi alcuni passaggi salienti meritevoli di sottolineatura: “A causa del progresso medico e tecnico medico il morire non è più percepito come un processo naturale, ma come una conseguenza di decisioni umane che hanno per contenuto il porre fine o il rinunciare a misure mediche di prolungamento della vita … Perciò da anni si moltiplica la domanda come il morire in una società moderna possa essere configurato in modo degno dell’uomo […] La legge si riconosce nel principio per cui ogni vita umana è degna di essere vissuta […] e proprio per questo è compito della società far sì che gli esseri umani siano accettati e curati e accuditi secondo i loro bisogni. L’accettazione di questo principio significa anche che ciascun uomo – e solo lui – stabilisce, in un processo personalissimo di decisione, quando non intende più lottare contro il processo naturale del morire […] Perciò la pretesa a un morire degno dell’uomo include anche la determinazione per cui dev’essere rispettata la personalissima intenzione del paziente, circa quando sia venuto per lui il tempo di morire […] La Corte di Cassazione ha stabilito il principio del carattere vincolante delle disposizioni del paziente come espressione dell’ultra-attività della sua autodeterminazione. E insieme ha segnalato la necessità di un intervento legislativo che consenta di superare le incertezze della prassi prevedendo un apparato di garanzia affidato in ultima istanza al giudice”.

Il legislatore deve poi considerare che “le situazioni di fine vita sono altamente complesse e individuali”. Lo stesso “processo del morire non può essere definito solo con criteri medici, perché ciò nella prassi è pressoché impossibile dato che nessun medico di regola può indicare senza alcun dubbio e con certezza di giudizio il momento in cui questo processo ha inizio”. Un intervento legislativo deve dunque informarsi “al riconoscimento che la vita e la morte nella loro complessità non sono normabili e si sottraggono a categorie standardizzate”, e quindi lasciare “spazio alla considerazione del caso singolo, rendendo possibile la valutazione e la valorizzazione individuale di ogni singola disposizione del paziente”.

In estrema sintesi, la logica normativa del disegno di legge consiste nel rendere certo il carattere vincolante delle disposizioni anticipate, e insieme nel caratterizzare questo «vincolo» non come un debito di formale e meccanico adeguamento a un precetto negoziale, ma come un obbligo di dare attuazione ai propositi del paziente attraverso un processo di interpretazione e concretizzazione nella realtà complessa e singolare che si tratta di affrontare.

Come avviene per una linea-guida, le «disposizioni» del paziente devono essere osservate e devono insieme essere interpretate e concretizzate per far fronte alla singolarità di ogni situazione, nel rispetto non solo della volontà espressa, ma anche dell’identità del paziente, della sua storia e dei suoi valori, della sua concezione della propria dignità. Questo compito è affidato ad un fiduciario e al medico; in caso di dissenso tra loro circa l’interpretazione e l’attuazione delle disposizioni, va previsto l’ascolto di familiari e persone vicine al malato, e in ultima istanza l’intervento del giudice.

Quelli sopra illustrati mi sembrano buoni principi, che non sempre hanno, almeno ad oggi, ispirato il testo approvato dal Senato della Repubblica italiana nel primo passaggio parlamentare [32] .

Ci si militerà a segnalare i due profili di disciplina che si presentano più meritevoli di riflessione critica.

In primo luogo, con l’art. 3, co. 5, la caratterizzazione ex lege della pratiche di Nutrizione e Idratazione Artificiali come autentiche e semplici forme di sostegno ‘in vita’, aliene da qualsiasi connotazione terapeutica: “l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.

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