IL PENALISTA DI FRONTE ALLE SCELTE DI FINE VITA [1]
di Giovanni Caruso
Università degli Studi di Padova

Si potrebbe obiettare che ben diverso è l’impedimento del suicidio, sopra esemplificato, dall’obbligo del medico di seguire obbligatoriamente e pedissequamente la volontà anticonservativa del paziente. Ma anche tale obiezione non sembra del tutto convincente.

Proviamo, infatti, ad arricchire il caso di una diversa connotazione: una persona si lancia volontariamente da un ponte a fini suicidiari, riportando gravissime lesioni; viene soccorso da terzi, i quali lo trasportano d’urgenza al più vicino ospedale, dove viene sottoposto alle cure di un anestesista-rianimatore. Si può davvero pensare che quel medico, consapevole dell’origine delle gravi lesioni del paziente, che affondano le radici su di un’univoca e volontaria scelta anticonservativa, non intervenga quoad vitam solo considerando la necessità di non interferire con l’esercizio della libertà esistenziale abdicativa del tentato suicida? Se un soggetto che ha tentato il suicidio è rimasto in vita, ma sia bisognevole di un’intubazione per superare una crisi cardiopolmonare, l’anestesista rianimatore applicherà la macchina salvavita al paziente, oppure si asterrà dal farlo, per il timore di commettere una violenza privata o di coartare ingiustamente la volontà libera del paziente? Ma proviamo a immaginare il caso del paziente intubato che, a fine suicidiario, ripetutamente tenti di allontanare da sé il respiratore artificiale alla presenza di un anestesista/rianimatore: il medico che si preoccupasse di impedire tale gesto non terrebbe forse una condotta esattamente analoga a quella di colui che impedisce un qualunque suicidio?

8. Sembra, quindi, che l’esasperazione del principio volontaristico nel sagomare il rapporto tra medico e paziente rischi, da un lato, di tradire in radice il significato autentico dello statuto ontologico e deontologico del medico, e, dall’altro, non consenta di cogliere adeguatamente il senso della richiesta di aiuto del malato, la quale va interpretata dal sanitario ben oltre le aride indicazioni esteriori della manifestazione di volontà, e deve invece inscriversi nella complessa rete di patimenti psico-fisici e invocazioni all’autentica arte prudenziale sanitaria. Quando il paziente si toglie il tubo, è perché esprime una volontà di morte, o perché non sopporta più le sofferenze? Il medico deve dunque comprendere empaticamente il malato, prima di ratificarne notarilmente gli impulsi volontari.

L’essere medico, in questo senso, si riflette nell’accorato grido del paziente: “è il più terrificante dei sentimenti rendersi conto che il medico non sa vedere la tua realtà, che non sa capire quello che senti, e che sta andando avanti semplicemente di testa sua. Cominciavo a sentire di essere invisibile e forse di non esserci nemmeno” [21] .

Ma se le cose stanno in questi termini, occorre forse maturare la consapevolezza – anche nella più ferma considerazione laica della vita, della morte e della malattia – che, per paradossale che possa apparire l’affermazione, la morte e la malattia non costituiscono oggetto di diritti azionabili, ma solo necessità della finitudine umana, né costituiscono oggetto di ‘diritto’ di libertà le scelte, certamente tali di fatto, di non fronteggiarne alla radice le possibili cause [22] .

Certo, la vita e la salute, come beni personalissimi, non possono essere garantiti coattivamente attraverso un’azione direttamente rivolta contro la volontà del loro titolare. Ma ciò non perché quei beni siano giuridicamente disponibili, bensì perché la loro indisponibilità non può che ultimativamente affidarsi alla determinazione consapevole e libera di ciascuna persona, tanto che un intervento coattivo volto a costringere alla cura implicherebbe la negazione della libertà della persona e, quindi, di un aspetto essenziale della sua dignità [23] .

9. Ciò non significa certo contestare l’esclusione della penale responsabilità del dott. Riccio per la morte di Piergiorgio Welby. Semmai, è il caso di interessarsi della correttezza giuridica della qualificazione penalistica della vicenda offerta dal Giudice romano.

In effetti, sembra che la non punibilità non si sarebbe dovuta fondare sull’assolutizzazione del dogma volontaristico, tradottosi nell’affermazione, penalisticamente contraddittoria, di un ‘diritto di morire’ al quale far corrispondere uno speculare ‘dovere di dare la morte’ in capo al sanitario, secondo una chiave di lettura dei compiti del medico che ne depriva di ogni senso ontologico ed etico l’amorevole funzione antalgica e curativa nel rapporto col paziente.

Tale lettura sembra invece essere stata accreditata dal Tribunale di Roma, e affiora nelle letture laicistiche, ma non laiche [24] , del caso Englaro.

In proposito, va denunciato come conseguenza di una mentalità giuridica esasperatamente tecnicistica quello di favorire l’indebita estensione del concetto di eutanasia a situazioni e condotte che, tutto al contrario, non presentano alcun carattere illecito.

In questa prospettiva, va detto con forza che il principio di indisponibilità della vita, presupposto ontologico di tutti gli altri diritti della personalità, non è compatibile con l’abbandono, ma nemmeno con l’accanimento terapeutico. Quest’ultimo, inoltre, non deve essere decifrato solo alla luce delle oggettive condizioni terminali di vita del paziente, ma anche soggettivamente, alla sequela dei suoi desideri, delle sue speranze, dei suoi valori e nel pieno rispetto della sua integrale identità siccome formatasi nel corso dell’esistenza. Il dissenso manifestato alla prosecuzione delle cure va inquadrato in questo paradigma dialogico-esistenziale tra medico e paziente, quale espressione del rispetto ultimo preteso dalla persona inferma per la propria vita spirituale e non meramente biologica, quale attestato ultimo della natura razionale e responsabile dell’essere umano, consapevole che anche la qualità della morte fa parte integrante della dignità della vita.

È opportuno proporre un esempio significativo degli errori indotti da una visione che sovrappone erroneamente gli schemi giuridici alla realtà: si parte dal considerare come atto omicidiario il distacco a un paziente di una macchina di sostegno vitale, senza considerare se il suo uso abbia portato o meno benefici al paziente e se tale uso potrà in futuro apportarne eventualmente altri, anche alla luce dell’interesse e delle aspirazioni, delle sofferenze e dei convincimenti del paziente, amorevolmente raccolti dal medico al suo capezzale nel dispiegamento dell’alleanza terapeutica.

Ma il distacco del respiratore artificiale dal paziente viene visto esclusivamente nel suo profilo causale, e non nel profilo intenzionale, né in quello assiologico-sostanziale, alla luce dell’insieme delle circostanze, della diagnosi e della prognosi ricollegabile all’uso dello strumento.

In quest’ottica ottusamente causalistica, ogni distacco del respiratore viene letto come atto omicidiario. L’uso degli strumenti di sostegno vitale diventa così obbligatorio in ogni caso, pena la responsabilità per omicidio volontario, anche quando l’uso della macchina è assolutamente inane in relazione alle condizioni del paziente e alle sue potenzialità di vita.

In forza di questa abnorme costruzione giuridica si fa scaturire l’accusa ai medici, che non abbiano applicato lo strumento di sostegno vitale o, più ancora, che lo abbiano distaccato, di praticare l’eutanasia, cioè l’omicidio del consenziente. Proprio per questo si pretende, poi, con illogica coerenza, di «legalizzare» l’eutanasia attiva, al fine di evitare l’ingiusta criminalizzazione del medico.

L’ideologia di una medicina difensivistica – dannosa tanto al medico, che necessita di slancio terapeutico, quanto al malato, che deve beneficamente fruirne – in tal modo fa premio sulla ragione medica e giuridica.

10. E allora, per tornare al caso di Piergiorgio Welby, nell’attività del medico anestesista che ha operato il distacco del ventilatore artificiale non è configurabile nemmeno la ‘tipicità’ del fatto omicidiario, trattandosi solo di un atto di consacrazione del rapporto tra medico e paziente quale autentica alleanza terapeutica, alla luce della sensibilità, dei desideri e delle sofferenze del malato.

La sentenza ha in realtà confuso due espressioni diverse del consenso di Piergiorgio Welby, che, sia pure difficilmente distinguibili sul piano fenomenologico, richiedono di essere tenute separate nell’inquadramento logico-giuridico: da un lato, il rifiuto della prosecuzione delle cure; da un altro lato, il consenso prestato alla propria morte.

A ben vedere, il paziente, in questo caso, non ha richiesto al medico di essere ucciso, ma solo di non essere più curato. La differenza giuridica, oltre che etica, tra le due aspettative di Piergiorgio Welby non può essere trascurata in una corretta ermeneusi penalistica: cosa sarebbe avvenuto se il medico, anziché provocare la morte attraverso il distacco del respiratore artificiale, avesse somministrato una dose di cianuro o di stricnina al paziente per porre termine alle sue sofferenze? Si sarebbe anche in tale caso discusso di omicidio del consenziente giustificato dall’adempimento del dovere?

In realtà, la causazione della morte, nel caso che ne occupa, non è, almeno direttamente [25] , riconducibile al comportamento del medico, ma allo stato di malattia che avrebbe precluso la respirazione naturale in assenza dei presidi tecnologici: è la morte naturale che fa il suo corso e assume rilievo giuridico, non quella indirettamente provocata dal medico.
 
È necessario a questo punto replicare all’obiezione secondo cui nel caso di specie non si sarebbe stati in presenza di un mero rifiuto di cure ‘salvavita’ espresso al medico – pure in una considerazione dell’indisponibilità del bene della vita –, poiché la richiesta di Welby sarebbe stata, piuttosto, quella di essere aiutato a morire attraverso una specifica condotta attiva: lo spegnimento del respiratore.

Ora, è indubbio che lo spegnimento del respiratore sia una condotta naturalisticamente attiva: si tratta, in fondo, di premere un pulsante, o di girare una manopola. Ma la questione cruciale attiene al significato giuridico-penalistico dell’atto, che – per quanto concerne almeno il medico che ha in cura il paziente – è quello di determinare l’interruzione del trattamento che il medico stesso, a suo tempo, aveva iniziato. Il respiratore ben può essere riguardato, in effetti, come il braccio meccanico, come la longa manus del medico che pratica un trattamento di assistenza respiratoria a un paziente non più in grado di respirare autonomamente: anziché essere effettuata manualmente a mezzo di un pallone di gomma, la ventilazione è praticata attraverso una macchina che regola il ritmo respiratorio, insufflando forzatamente l’ossigeno nei polmoni del paziente. Ma pur sempre di un trattamento medico si tratta, sia pure attuato attraverso un mezzo meccanico, onde la sua interruzione dovrà essere considerata quale omissione dell’ulteriore trattamento. E ciò, a ben vedere, anche se tale omissione debba attuarsi attraverso una condotta naturalisticamente attiva, come la pressione di un pulsante o la rotazione di una manopola [26] .

Alla stregua del significato penalisticamente omissivo della condotta del medico, il quale si limita a non proseguire le cure, si tratterebbe di valutare l’applicabilità dell’art. 40, co. 2 c.p., vale a dire dell’istituto del delitto omissivo improprio, secondo cui “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico d’impedire equivale a cagionarlo”.

A proposito di tale istituto, nella letteratura e nella giurisprudenza penalistica, la questione più spinosa è quella di stabilire, con la maggiore precisione possibile, quando si possa ritenere sussistente la ‘giuridicità’ dell’obbligo d’impedimento dell’evento, risolto attraverso l’enucleazione di specifiche posizioni di garanzia in capo a determinati soggetti, conseguentemente tenuti alla condotta impeditiva dell’evento altrimenti operante. Certamente il medico riveste la posizione di garanzia dalla quale scaturisce l’obbligo giuridico di impedire che il decorso causale innescato dalla malattia giunga a compimento, nei casi più gravi con la morte del paziente.

A nostro giudizio, tuttavia, l’obbligo cessa di essere giuridicamente rilevante laddove il paziente abbia espresso in modo consapevole, maturo e irrevocabile, alla luce del dialogo ‘veritativo’ e non solo ‘volontaristico’ con il medico, la determinazione di far cessare il trattamento terapeutico.

In tale quadro, è ovvio, la manifestazione di volontà del paziente non determina un corrispondente obbligo in capo al medico, come la constatazione della possibilità del medico di non assecondare la richiesta del paziente chiaramente dimostra (basti riflettere sulla liceità dell’obiezione di coscienza, senza che nessuna Procura della Repubblica abbia mai avviato procedimenti penali per omissione d’atti d’ufficio contro i medici non disposti a far seguire l’interruzione del trattamento alla specifica richiesta del paziente).

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