IL PENALISTA DI FRONTE ALLE SCELTE DI FINE VITA [1]
di Giovanni Caruso
Università degli Studi di Padova

Sennonché, tale interpretazione dell’art. 32, co. 2 Cost., per quanto oggi particolarmente diffusa, non è l’unica a essersi imposta in seno alla dottrina costituzionalistica, essendovi autorevoli studiosi [7]  che hanno cercato di offrirne una lettura carica sia di spessore storico – alla luce di un’attenta indagine sui lavori in seno all’Assemblea Costituente –, sia di spessore sostanziale – sensibile al rapporto ontologico, assiologico e giuridico che deve legare medico e paziente –.

È opportuno soffermarsi su tale opzione ermeneutica, alternativa rispetto a una valorizzazione integrale e ‘totalitaria’ della primazia volontaristica del paziente nel rapporto col medico.

5. Sul piano storico, si è contestato che l’art. 32 Cost. abbia corrisposto all’esigenza di consacrare, in termini assolutistici, il principio ‘volontaristico’ in tema di diritto alla salute, negandosi che esso abbia inteso innovare rispetto al principio  giuridico dell’indisponibilità della vita umana.

Secondo una ermeneutica valorizzata dalla cultura penalistica di area cattolica [8] , l’articolo 32 della Costituzione dovrebbe essere interpretato nella sua integralità. Anzitutto il comma 1 del medesimo, statuendo che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», implicherebbe solo che lo Stato non possa strumentalizzare tale diritto a profitto di altri beni, siano essi individuali o collettivi. Per esempio, nessuno potrebbe essere sottoposto a sperimentazione farmacologica, diagnostica o terapeutica per il progresso della scienza, né potrebbero ammettersi attività lavorative, pur utili alla collettività, che mettano a rischio la salute del lavoratore.

La salute individuale sarebbe, però, anche un bene per l’intera comunità, come affermato esplicitamente dall’ultima parte del comma 1 dell’articolo 32. La salute rimane, pertanto, un diritto non disponibile e non negoziabile, giuridicamente e logicamente insuscettibile di contenere il suo contrario, come sarebbe se tale diritto si riducesse al principio dell’assoluta autodeterminazione e il suo oggetto consistesse tanto nel bene positivo della vita e della salute quanto nel suo annientamento.

In effetti, il comma 2 dell’articolo 32, secondo cui “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, rivela una saggezza pratica esemplare, risolvendo con equilibrio il problema delle modalità con cui l’interesse pubblico alla salute di ciascun individuo, costituzionalmente riconosciuto, può essere fatto valere nei confronti del suo titolare [9] .

Ancorché assecondando una lettura ormai minoritaria – ma non per questo meno autorevole – del testo costituzionale alla luce dell’intentio legislatoris [10] , si è dimostrato che l’intento dei Costituenti, ben attuato nella disposizione, fosse solo quello di vietare in modo assoluto le misure degradanti che la storia allora recente aveva reso tragicamente attuali, come la sterilizzazione eugenetica e la sperimentazione su «cavie umane», e, per nulla affatto, invece, quello di apportare innovazioni al principio dell’indisponibilità della vita e della salute.

6. Sul piano dei significati ontologici, assiologici e giuridici del rapporto medico-malato, è stato posto in luce che quando l’autonomia del malato diventa esclusiva [11] , a scapito della composizione bilanciata di tutti i principi bioetici in vista di una decisione pure rivolta al maggior bene, anche spirituale, del malato, il rapporto terapeutico rischia di subire una innaturale torsione in senso contrattualistico, con lo smarrimento delle sue più rilevanti connotazioni etiche e deontologiche.

Va ricordato che almeno a partire dal secondo dopoguerra [12] , si è affermato un metodo certamente equilibrato tra medico e paziente, definito di «alleanza terapeutica», secondo cui la decisione curativa deve essere assunta nell’orizzonte del maggior bene del paziente, ancorché individuato in modo condiviso alla luce dell’esperienza soggettiva di vita e dei desideri del malato, nonché della oggettiva proporzione fra i benefici prevedibili e i costi di sofferenza del trattamento.

Ma sarebbe proprio il principio di beneficità – comprendente, quale suo presupposto, il “primum non nocere” [13]  – e di giustizia, colti attraverso la ragione dialogante tra medico e malato, a soccombere irrimediabilmente laddove si erigesse a unico criterio della decisione terapeutica l’ineffabile e inesplicata volontà del paziente in quanto tale.

Il modello dell’«alleanza terapeutica», invece, scaturito dalla valorizzazione del «consenso informato», sottolinea l’esigenza che al centro della medicina stia il rapporto fra il medico e il paziente, come «[…] incontro tra due soggetti che nasce da uno stato di bisogno del malato e si esprime come richiesta d’aiuto» [14] . L’incontro instaura «[…] una relazione comunicativa che è di per sé asimmetrica a causa della disuguaglianza di competenze e dello stato di necessità in cui versa il malato. Cercare di colmare la loro distanza pur mantenendo la differenza data dalla conoscenza scientifica del medico, significa preservare l’apertura e la disponibilità alla comunicazione esistenziale […]. Curare il paziente vuol dire non solo attuare un intervento terapeutico, ma anche comprendere attraverso un processo ermeneutico l’uomo malato nella cui biografia la malattia si inscrive» [15] .

Il modello dell’«alleanza terapeutica», in altri termini, si contrappone non soltanto al «paternalismo», ma preserva altresì la medicina da ogni forma di contrattualismo e di deteriore burocratismo, troppo spesso tali da alimentare un pregiudizievole accostamento difensivistico del medico al capezzale del paziente, laddove la valorizzazione del dialogo come centro nevralgico del rapporto diviene l’imprescindibile condizione affinché tanto la libertà quanto il bene del malato, cardini attorno a cui ruota l’attività medica, trovino una conciliazione anche nei casi difficili.

L’alleanza terapeutica ha un oggetto determinato, che segna i confini della decisione condivisa, tale per cui né il medico può spingersi oltre l’obiettivo del bene integrale del paziente, né quest’ultimo può pretendere che il medico rinunci a perseguire questo bene, sia pure valutato alla luce della sua esperienza, dei suoi desideri e dei suoi piani di vita. Per converso, esigere che il medico si faccia strumento asettico e ‘senza alleanza’ del mero lìbito del paziente rischierebbe di legittimare una relazione contrattualistica di natura diversa da quella che contrassegna indelebilmente la medicina.

Come non convince una concezione ‘paternalistica’ della medicina, altrettanto non può accettarsi una sua interpretazione in chiave meramente «individualistica» e «contrattualistica», come se il suo oggetto fosse la prestazione di quanto è dedotto nel contratto, senza alcun riferimento ai significati profondi, ontologicamente non negoziabili, della missione ‘ippocratica’ del medico e della medicina.

D’altro canto, ciò non comporta affatto che la pratica medica possa attuarsi prescindendo o prevaricando il volere e la libertà del singolo. Per il giurista, tuttavia, è necessario identificare, con piena consapevolezza critica, le peculiarità che l’alleanza terapeutica e il dialogo tra medico e paziente esprimono sul piano giuridico. Occorre, in altri termini, far affiorare i significati autenticamente giuridici, in termini di liceità e d’illiceità, di legittimità o di illegittimità, dei comportamenti del medico e del malato, al di là del grado di (im)possibilità di fatto, per il terapeuta, di impedire le eventuali decisioni anticonservative del paziente. 

Infatti, sul piano giuridico, se, da un lato, è indubitabile che il compito di cura del medico non può trascendere autoritativamente la libera determinazione dell’individuo, dall’altro lato è altrettanto vero che l’ordinamento giuridico non potrebbe, senza contraddizione, considerare al contempo giuridicamente apprezzabile tanto la protezione quanto la soppressione della vita, tanto la tutela quanto il pregiudizio della salute. Più precisamente, non potrebbe considerarsi come ‘diritto azionabile in giudizio’ il potere di fatto di ciascuno, per esempio, di negarsi la vita, suicidandosi, ovvero serbando condotte volte a peggiorare le proprie condizioni di salute, ovvero ancora omettendo contegni che sarebbero idonei a migliorarle. Specularmente, non potrebbe configurare un obbligo correlativo a un «diritto» del paziente, che rifiutasse consapevolmente le cure utili alla salute, quello di astensione del medico dal praticarle. Basti pensare al fatto suicidiario: l’individuo può certo suicidarsi, esercitando un potere di fatto sul proprio corpo; può determinare il peggioramento o impedire il miglioramento delle sue condizioni di salute, non curandosi. Ma questi poteri non sono espressione di un diritto, bensì di mere facoltà di fatto, prive di tutela nell’ordinamento giuridico e non azionabili come pretese giuridiche nei confronti dei terzi [16] .

7.  Va detto che tale impostazione giuridica della questione attualmente appare, vieppiù alla luce dei casi Welby ed Englaro, certamente minoritaria.

Premesso e ribadito che il Tribunale di Roma  radicalmente escluso che nel caso di Welby si potesse parlare di accanimento terapeutico [17] , l’unico elemento di delibazione è consistito nella necessità di rispettare la volontà terapeutica del paziente, in ossequio al principio ‘volontaristico’ in tema di trattamenti sanitari.

Movendo dalla prospettiva di un diritto laico e secolarizzato, la soluzione sembra a prima vista del tutto convincente: si tratta di un diritto perfetto, azionabile giuridicamente, oggetto di una specifica norma costituzionale precettiva.

Sennonché, le cose sono meno lineari di quanto a tutta prima potrebbe apparire.

Per esibirne la complessità, sono utili alcuni esempi: anche se affiorasse la consapevolezza e la volontarietà dell’aspirante suicida, chi agisca per impedire l’evento suicidiario potrebbe avvalersi della scriminante dello stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. [18]  (o, forse, anche della legittima difesa del terzo prevista dall’art. 52 c.p. [19] )? Se la volontà di uccidersi è pleno iure una volontà riconosciuta quale espressione massima della libera autodeterminazione, quale titolo avrebbe il terzo per impedire l’esecuzione dell’intento suicidiario, se non ammettendo una prevalenza del bene indisponibile della vita rispetto a quello dell’autodeterminazione? Non dovrebbe forse rispondere di violenza privata ex art. 610 c.p. [20]  in caso di intervento salvifico? Se il bene della vita fosse giuridicamente disponibile, e non solo di fatto, e se dovesse sempre abdicarsi al compito di salvare la vita, quale titolo avrebbe l’agente della forza pubblica o il privato cittadino per intervenire in soccorso dell’aspirante suicida, coartandone la volontà?

I penalisti sanno bene che chi trattiene una persona che sta per lanciarsi da un ponte nel vuoto non è responsabile di violenza privata ai sensi dell’art. 610 c.p.; che chi strappa di mano con violenza la pistola a colui che abbia in animo di spararsi un colpo di arma da fuoco, procurandogli lesioni, non sarà responsabile del delitto di cui agli artt. 582 e 583 c.p., poiché tali atti anticonservativi giustificano la tutela del diritto minacciato da parte del terzo, evidentemente perché il danno che occorre prevenire si configura come ingiusto. Ma se il danno è ingiusto, come può esso scaturire dall’esercizio di un diritto costituzionale quale quello previsto dall’art. 32, co. 2 Cost.?

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