MECCANIZZARE IL GIUDIZIO PER CONSEGUIRE CERTEZZA DEL DIRITTO.
Considerazioni intorno alla possibilità di percorrere tale itinerario
di Marco cossutta
3. Incontro fra nuove tecnologie e vecchie geometrie.
Le argomentazioni di Borruso, innovative in quanto legate alla possibilità di utilizzo di uno strumento la cui comparsa è relativamente recente , non rappresentano, al di là dell’apparente sconcerto (del resto previsto dallo stesso Autore), una cesura con certa tradizione giuridico-politica di stampo geometrico, più precisamente di sapore prettamente hobbesiano. Per inciso, va rilevato come Hobbes non venga richiamato da Borruso nei suoi lavori. Ciò non di meno, la prospettiva solcata da Hobbes nel Diciassettesimo secolo è indubbiamente protesa verso la calcolabilità delle conseguenze di una azione.
Nella speculazione hobbesiana certo è il risultato di un’operazione matematica; l’aspirazione dello scienziato giuridico è di potere operate sulla società politica allo stesso modo in cui il geometra opera sul piano geometrico.
Celeberrima ed esemplificativa dell’impostazione del problema in chiave geometrica, è la perorazione contenuta nel De Cive: "se si conoscessero con uguale certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria, sarebbero debellate l’ambizione e l’avidità, il cui potere poggia sulle false opinioni del volgo, intorno al giusto e all’ingiusto, e la razza umana goderebbe di una pace così costante, che non sembrerebbe di dover mai più combattere" .
L’aspirazione di Hobbes non può ritrovare seguito nella sua teoria politica e giuridica, che non rappresenta il giudice quale strumento di calcolo; l’Autore ripiega verso la teorizzazione della assoluta sovranità di Leviathan, il quale rende il suddito proprio strumento.
Che tale costruzione sia, per l’appunto, un ripiego, un succedaneo al dispiegarsi della perfezione geometrica nell’ambito politico e giuridico, appare indubbio nel capitolo diciottesimo del Leviathan, ove leggiamo: "lo stato dell’uomo non può mai essere del tutto assente da qualche modestia, e che la più grande che possa per avventura capitare al popolo in generale, in qualsiasi forma di governo, è pressoché impercettibile in confronto alle miserie e alle spaventose calamità che sono retaggio di una guerra civile". Il sovrano si palesa come il male minore o male necessario da sopportare a fronte dei pericoli della guerra civile. L’ideale sarebbe il calcolo geometrico, ma ciò non è dato.
Sembrerebbe che l’avvento del calcolatore riesca a risolvere il dilemma che angoscia l’animale politico post-aristotelico: irrazionalità, ovvero arbitrio incontrollato, versus sovranità, ovvero arbitrio prevedibile.
Il calcolatore viene, infatti, presentato come strumento dotato di razionalità; se sapientemente utilizzato può produrre, anche nell’ambito giuridico-politico, quel risultato oggettivo, a cui la mente umana difficilmente potrebbe giungere, non riuscendo a scindere il proprio vissuto (le passioni, di cui al capitolo sesto del Leviathan) dal caso contingente, tanto da poter sospettare, sempre e comunque, una mancanza fisiologica di obbiettività nel suo operato. Per di più questo risultato oggettivo potrà venire raggiunto senza che la comunità politica debba sacrificare la libertà alla (prevedibilità della) sovranità, operazione che invece puntualmente avviene nella costruzione hobbesiana.
Così G. W. Leibniz, nello studio Sulla scienza universale o calcolo filosofico, ci esemplifica il procedimento: "quando sorgeranno delle controversie, non vi sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamando se loro piace un amico): calcoliamo".
L’infallibilità del metodo di calcolo deriva dalla totale assenza di processi mentali intuitivi, quindi, da una procedura puramente meccanica; il calcolo algoritmico, a cui si fa riferimento, è espressione della prua razionalità. Infatti, tutto ciò che non è esprimibile in modelli deduttivi, non è cioè algoritmizzabile, non fa parte del calcolabile, perciò è ascrivibile o al campo dell’irrazionale o alle forme della razionalità intuitiva; manifestazioni del pensiero non controllabili oggettivamente, proprio perché non calcolabili.
Il punto centrale della proposta di Borruso, che ritrova, come accennato, le proprie radici nello sviluppo del pensiero politico e giuridico moderno, riguarda, quindi, la possibilità di trasformare la legge in un algoritmo e di utilizzarla per mezzo di un procedimento riconducibile alla razionalità deduttiva.
Scrive, infatti, Borruso: "non potrebbe il legislatore egli stesso a provvedere a formulare la legge (specie quelle destinate a regolare i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini) sotto forma di software applicativo della medesima, come se fosse un Sistema Esperto Legale, eliminando, così, non solo qualsiasi incertezza di interpretazione, ma l’interpretazione stessa come operazione intellettiva a sé stante? […] Se questa è la ratio che è alla base della tripartizione dei poteri, allora si può concludere che essa rimane valida solo per quanto concerne l’accertamento dei fatti (presupposto dell’applicazione della legge), ma non per la sua interpretazione e applicazione in quanto, una volta sigillato il software contenente la legge e affidatane l’applicazione al computer, la sua imparzialità darebbe assicurata" .
Anche questa ulteriore specificazione di Borruso ritrova ampia conferma nel pensiero moderno, basti qui richiamare l’illuminismo giuridico, cosa puntualmente fatta dal nostro Autore.
"In ogni delitto di deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la strada all’incertezza. Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni", così Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, IV.
La via per raggiungere l’obbiettivo della certezza del diritto (nonché per definire il suo significato) è chiaramente indicata: l’unica condizione tecnica che deve realizzarsi al fine di una applicazione automatica della legge è la sua rappresentazione algoritmica; il testo normativo deve palesarsi come un algoritmo, ovvero, come già richiamato, deve essere definito come un insieme ordinato ed in sequenza di tutte le regole precise inequivocabili analitiche generali e astratte. Le regole devono venire formulate ex ante, prima, dunque, del sorgere della concreta questione da risolvere e senza alcun riferimento a questa; la loro scrupolosa e letterale applicazione le pone infallibilmente in grado di conseguire il risultato voluto.