B. MONTANARI (a cura di), La possibilità impazzita. Esodo dalla modernità Giappichelli, Torino 2005, pp. VIII+430
di Federico Reggio
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‘Cartografi’ di un esodo.
“Esodo dalla modernità”. Il sottotitolo del volume collettaneo che raccoglie alcuni recenti saggi del pensiero di Bruno Montanari e dei suoi ‘giovani’ allievi e collaboratori di Catania, Roma-Luiss e Milano-Cattolica, sembra ben caratterizzare uno dei tratti portanti della condizione contemporanea. Se infatti costituisce un’opinione ampiamente condivisa l’idea che dalla modernità si sia usciti, appare tutt’altro che chiaro, o per lo meno condiviso, il significato di questo ‘congedo’, con le sue implicazioni. Come rileva lo stesso Montanari in sede di presentazione del testo, i punti di contatto con la modernità si rivelano – ad un’attenta analisi – più numerosi di quanto si possa immaginare, a testimonianza del fatto che molti dei problemi con cui la contemporaneità si viene a misurare sono ‘figli’ di presupposti teorici o di esiti pratici sorti nella Weltanschauung moderna e pertanto risultano maggiormente comprensibili se letti in confronto con essa.
Uno dei tratti più caratteristici dello ‘stacco’ dalla modernità sembra essere la perdita di fiducia nei confronti della capacità dell’uomo di pensare ed agire in modo sistematico e ordinato: sicché nel contesto contemporaneo, ove la dimensione del pensiero e della prassi pare relegata al ‘qui ed ora’, nulla appare realmente comune alle “possibilità del fare”, se non il fatto stesso di essere possibili. Si tratterebbe quindi – a prima vista – di una possibilità dotata di uno spettro d’azione particolarmente ampio. Tuttavia, poiché il pensiero contemporaneo sembra aver ereditato, e talora quasi estremizzato, l’attitudine individualistico-utilitaristica ed il fascino irresistibile per l’agire tecnico che avevano caratterizzato la mentalità moderna, tale spettro di possibilità sembra oggi aver trovato un ulteriore, inquietante, punto in comune nell’effetto di “strangolare le società umane in una morsa di poteri”. La possibilità, oltre che aperta, si rivela quindi “impazzita”, perché mentre da un lato rivela all’uomo un vasto insieme di potenzialità, dall’altro sembra sempre di più ritorcere gli effetti di esse contro l’uomo stesso.
In questa condizione di smarrimento e di ‘pericolo’ per le società umane il filosofo del diritto – soprattutto se non avvezzo ad accontentarsi di una prospettiva meramente situazionale – si trova a dover ‘fare il punto’ per interrogarsi sui ‘movimenti’ che caratterizzano l’esodo dalla modernità e sui principali pericoli che questo percorso sembra incontrare. In quest’attività ricognitiva appare chiaro, in primo luogo, che le istituzioni e gli strumenti politico-giuridici tradizionali non sembrano adeguati a rispondere alle forme di ‘potere di fatto’ che si affermano oggi nella società globalizzata: questa anzi appare sempre maggiormente governata da spinte e poteri – per lo più di origine economica – che valicano confini e spazi di controllabilità degli ordinamenti statali e delle Organizzazioni Internazionali, sicché, in questo contesto, il diritto appare sempre di più – anziché regolatore e ‘limite’ di tali poteri di fatto – un mero strumento che certifica il loro imporsi [1] .
Se la modernità era riuscita a fornire una teoria e una giustificazione della sovranità – ‘armandola’ grazie al diritto – ma in fin dei conti limitandone anche l’arbitrio proprio grazie allo stesso strumento giuridico e, soprattutto, fornendole dei confini concettuali e territoriali nello Stato, nell’odierno contesto globalizzato la sovranità assume – come osserva Montanari – una consistenza ‘rarefatta’: essa, infatti, non si dissolve ma ‘evapora’, rendendosi per questo anche più sfuggente, e quindi meno controllabile. Si comprende allora la preoccupazione sottostante alla riflessione giuridico-politica in tema di governance – sfondo comune agli scritti contenuti ne ‘La possibilità impazzita’: “non lasciar ridurre la politica” e con essa il diritto “a puro esercizio di potere”, ed anzi di comprendere come la società umana possa organizzarsi e difendersi da spinte che sembrano schiacciarla.
Si potrebbe ora obiettare che, posta questa comune domanda di fondo, “La possibilità impazzita” presenta un insieme di riflessioni tra loro troppo eterogenee – nell’impostazione, nelle tematiche e nelle conclusioni – per fornire una risposta.
Tuttavia non pare questa la chiave di lettura più adeguata per comprendere questo libro: in pieno ‘esodo’ dalla modernità, gli autori sembrano piuttosto comportarsi come dei ‘cartografi’ che si muovono in direzioni differenti con lo scopo, ciascuno per il proprio ‘settore’, di ‘tracciare il punto’, di verificare lo stato dei luoghi, talora riesplorando il tragitto dell’esperienza per leggerne gli insegnamenti e per capire quando, al bivio, sia capitato di scegliere la strada sbagliata.
Si comprende quindi che dalla lettura di questo testo non emerge ‘una’ direzione di marcia, bensì una ‘carta geografica’ utile ad interrogarsi su ‘dove siamo’, fornendo tracce, punti notevoli in grado di aiutare la ragione smarrita a spingersi oltre le ‘sabbie mobili’ della possibilità impazzita, o comunque a uscire da esse, per ritrovare vie più sicure e fruttuose.
Le direzioni intraprese dai vari autori sono molteplici ed è davvero complesso render conto in modo schematico dell’insieme di argomenti trattati: si può tuttavia cercare di individuarne alcune principali aree tematiche.
Economia: ‘motore primo’ della globalizzazione.
Una prima area – apparentemente periferica rispetto a temi di Filosofia del Diritto ma di chiara importanza in un’analisi incentrata sulla globalizzazione – attiene a temi più strettamente economici. Chi oggi si accinge infatti a studiare da un punto di vista filosofico-politico il contesto contemporaneo si imbatte nella constatazione del ruolo sempre più forte che le grandi concentrazioni di capitali possono svolgere, a livello internazionale, nel condizionare la stabilità politica e sociale di singoli stati e di intere aree geopolitiche. Non solo: l’elevata mobilità dei capitali e la conseguente trans-nazionalizzazione delle attività economiche, unita alla massa critica che questi riescono a raggiungere, comporta che le economie dei singoli stati rivelino un elevato grado di dipendenza reciproca. Le potenzialità ed i pericoli di questo fenomeno sono esposte nel saggio di Paolo Bruno, che illustra quanto il grande tasso di interdipendenza tra le varie economie nazionali possa rivelarsi tanto una risorsa quanto un pericolo: esso è virtuoso quando opera come motore di interazioni a beneficio di più aree produttive, però estremamente pernicioso quando comporta pericolosi ed incontrollabili ‘effetti domino’ innescati da fattori di crisi. Basti pensare a quante volte fatti avvenuti a migliaia di chilometri di distanza possano far volatilizzare capitali investiti – ad esempio – in risparmio gestito, senza che ciò riveli un evidente nesso causale.
Dall’analisi di Bruno – svolta attraverso un percorso storico ricco di esempi concreti di situazioni anche vicine all’attualità – appare come la situazione sia a tutt’oggi fluida e veda gli strumenti politico-giuridici attuali ancora insufficienti ad offrire adeguate garanzie capaci di ammortizzare i rischi di un simile sistema. Da un punto di vista critico, tuttavia, non si capisce come lo studioso possa affermare che “il potenziale dei rischi legati all’attività economica viene sovente ignorato a livello istituzionale per la mancanza di spiegazioni scientifiche sul nesso causale tra adozione di certi comportamenti economici e conseguenze nocive per gli uomini e l’ambiente”, posto che le sue stesse considerazioni sembrano presupporre la attuale lesività delle attività economiche su equilibri politici e sociali. Ci si chiede infatti il problema dei danni derivanti da attività economiche non dipenda piuttosto da un difetto di volontà politica, o, se si preferisce, di coscienza collettiva, troppo facilmente tacitate da un’etica che – con estensione sempre più ‘globale’ – sembra aver elevato a massimo valore il profitto.
Che la questione etico-giuridica legata all’attività d’impresa costituisca una delicata ed attuale frontiera, traspare infatti dal saggio di Amelia Bernardo, per la quale, “visto il ruolo e l’influenza delle grandi imprese negli equilibri – non solo economici – internazionali” il concetto di responsabilità dell’impresa verso terzi assume una nuova dimensione ed un nuovo rilievo: le attività economiche sembrano infatti in grado di incidere con sempre maggiore invasività su interessi, prerogative e diritti di soggetti esterni alla tutela garantita dal contratto di società e dall’insieme di rapporti giuridici sinallagmatici legati alla sua attività.
Appare a questo proposito significativo – e oggi tristemente confermato da molti esempi di attualità – ricordare gli effetti che può sortire la bancarotta di una grande impresa su un numero vasto ed imprecisato di risparmiatori, rispetto al quale risulta inadeguata la semplice tutela offerta dai rimedi contrattuali: anzi, come osserva Amelia Bernardo, sembra prospettarsi con sempre maggiore urgenza la necessità di riconoscere un interesse pubblico alla protezione del risparmio. Eppure, la dialettica tra una visione ‘istituzionale’ ed una ‘contrattuale’ dell’attività d’impresa – che la studiosa legge attraverso l’evoluzione di alcuni significativi esempi della dottrina tedesca, anglo-americana ed italiana – sembra aver siglato, nel mondo occidentale, la vittoria del secondo modello:
prevale insomma l’impostazione di pensiero per la quale compito istituzionale dell’impresa è la realizzazione del profitto, a scapito di quelle visioni che (in modo più o meno temperato e con diversi riferimenti di pensiero) avevano posto l’accento sulla dimensione sociale e personale dell’attività d’impresa [2] . L’emergere – di cui Amelia Bernardo espone l’esempio europeo – di istanze etiche volte a promuovere la collaborazione tra imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate, nel quadro della realizzazione di uno sviluppo sostenibile, rivela “quanto sia illusorio confidare nella capacità del mercato di regolarsi da solo e perseguire spontaneamente nel tempo il benessere comune” [3] . Nell’insufficienza – o forse anche nell’inettitudine – degli strumenti politico-giuridici attualmente presenti a livello statale di rispondere efficacemente ai movimenti ‘senza confini’ e ‘smaterializzati’ dei mercati in epoca di globalizzazione, appare importante interrogarsi su quali possano essere gli strumenti idonei a contenere i rischi e gli abusi che i mercati stessi possono comportare a danno delle persone e dell’ambiente. A questo proposito, il rischio che strumenti basati su un’opzione puramente volontaria – come ad esempio i Codici Etici d’Impresa – si rivelino enunciazioni sprovviste di reale cogenza, quando non anche vere e proprie operazioni di marketing, pone in rilievo l’esigenza di un serio ripensamento dei limiti e delle condizioni di validità dell’attività economica. L’insufficienza dello strumento etico, come di quello giuridico, affermata da Bernardo in sede conclusiva del suo saggio mostra appieno quanto sia aperta la questione di come pensare un limite adeguato per uno sviluppo dell’economia globale troppo spesso caratterizzato da meccanismi selettivi fondati sulla ‘sopravvivenza del più forte’.
Appare quindi chiaro già da quest’area tematica che gli autori del testo si collocano su una ‘linea di confine’ che provoca a riflettere ed interrogarsi in modo spregiudicato sui limiti e sulle possibilità del diritto e in particolare della politica nel regno della complessità.
Diritto e tecnoscienza.
Un’ulteriore area di riflessione – nella quale possono annoverarsi gli scritti di Salvatore Amato, Barbara Troncarelli, Emanuela Gambini e Nino Cortese – ‘esplora’ il terreno delle ‘possibilità’ assicurate dal sapere scientifico e dalla sua proiezione tecnica, sul cui sfondo si staglia, come ricorda Amato, la difficile linea di confine tra “l’aspirazione (…) di un uomo sempre più uomo, integrale padrone dei propri destini e della propria qualità esistenziale, e l’angoscia etica di un uomo non più uomo, superfluo aggregato di molecole e proteine”, ridotto a ‘terreno’ di studio della scienza, e a ‘materiale’ di sperimentazione da parte della tecnica.