L’ATTIVITÀ MEDICO/CHIRURGICA ARBITRARIA TRA “LETTERA” DELLA LEGGE E “DIMENSIONE ERMENEUTICA” DEL FATTO TIPICO
di Giovanni Caruso
In altri termini, come è stato osservato, il consenso del paziente, “non potendosi identificare con il consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p. […], deve ritenersi integrare un requisito di legittimità o di liceità dell’attività stessa, che la rende pienamente conforme a legge: si potrebbe dire che la potestà di curare – che spetta ex se al medico «per il fatto di essere tale» – consista nella titolarità di una situazione giuridica soggettiva che non ha la pienezza del diritto, o che per lo meno è un diritto fievole, o condizionato, e che necessita, per la sua concreta legale espansione, della acquisizione del consenso del malato, che sortisce allora l’effetto di rimuovere un limite rispetto al suo esercizio” . In definitiva, per mutuare la terminologia dal diritto amministrativo, il consenso del paziente non avrebbe natura «concessoria», bensì «autorizzatoria», alla stregua di quei provvedimenti “che condizionano l’esercizio di preesistenti diritti”, e che “hanno funzione permissiva, vale a dire funzione di consentire – previo riscontro della mancanza di ragioni di contrasto con le esigenze di interesse pubblico di volta in volta avute di mira dal legislatore – l’esercizio di determinate attività inerenti a preesistenti diritti dei soggetti interessati” .
Nondimeno, è proprio con il deliberato divisamento di corrispondere all’istanza «autonomistica» del diritto penale che si cercherà di fornire un ulteriore contributo di chiarimento al significato della partecipazione consensuale del paziente all’atto medico-chirurgico, senza dovere, da un lato, pagare tributi concettuali ad altri rami dell’ordinamento, e, dall’altro, rimanere genericamente vincolati all’ardua ricerca del significato concettuale dell’espressione «diritto fievole». 3.2. La tesi rigorista che equipara l’uso del bisturi al fendente di pugnale, come ricordato, muove da un’interpretazione della fattispecie di lesioni personali attenta alla considerazione meramente materiale ed estrinseca dell’evento del reato; essa, come è stato notato, “non soltanto intende la lesione personale come resezione dei tessuti ed offesa dell’integrità fisica, ma […] interpreta riduttivamente il concetto di malattia in termini di mera alterazione anatomica” .
In realtà, come già osservato, la malattia non si identifica con la mera alterazione anatomica, indicando, piuttosto, una apprezzabile compromissione funzionale dell’organismo : come la malattia è un processo patologico e non una mera alterazione anatomica, alla stessa stregua lo stato disalute è una condizione dinamica, che può senz’altro essere favorita da atti medici produttivi di alterazioni anatomiche, anche irreversibili. Sicché, il problema della rilevanza penale dell’atto medico arbitrario si porrà nella misura in cui il trattamento terapeutico abbia esito infausto, il cui accertamento, peraltro, non potrà fondarsi esclusivamente sulla circostanza che il medico abbia o meno osservato le leges artis, poiché, “a ben vedere, non vi sono ragioni per assumere il carattere perito della condotta – un elemento che, come noto, attiene alla tipicità del reato colposo – quale criterio compensativo della mancanza di consenso, con l’intento di eludere in radice la rilevanza penale dell’atto medico arbitrario conforme” a perizia, e di “profilare l’eventualità di una responsabilità colposa unicamente in caso di negligenza, imprudenza e imperizia” . In effetti, la tesi che riconnette al rispetto delle leges artis la carenza di tipicità del fatto tipico di lesioni personali, assume che l’atto medico connotato in termini di perizia non sarebbe tipico, in ragione del fatto che difetterebbe l’imprescindibile nesso eziologico tra condotta perita e malattia; in tale prospettiva, si osserva come, procedendo al giudizio controfattuale, necessario onde vagliare il collegamento tra azione ed evento, ed eliminando mentalmente l’atto medico perito, si potrebbe verificare come l’evento pregiudizievole per la salute del soggetto si sarebbe egualmente verificato , poiché il quadro clinico del paziente sarebbe peggiorato non in conseguenza dell’intervento medico, ma a cagione del pregresso stato morboso. Tale assunto, come non si è mancato di sottolineare, non tiene in considerazione quelle ipotesi in cui l’intervento medico, anche se condotto nel più fedele ossequio alle leges artis, lascia ragionevolmente preconizzare un esito avverso, poiché, “dato il carattere empirico dell’attività medica, specie nei casi in cui la prognosi non è formulabile in termini di certezza assoluta, il trattamento medico diligente può determinare ed addirittura accelerare il peggioramento dello stato di salute del paziente, che, per un verso, l’attività terapeutica aveva delle chances di impedire e che, per l’altro, in mancanza dell’intervento medico sarebbe avvenuto in un arco di tempo più lungo”; in casi siffatti, pertanto, non pare contestabile la sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento, “a meno che nella descrizione dell’evento non si consideri inessenziale il ritardo con cui si sarebbe verificato il peggioramento della salute del paziente; ma sarebbe questa un’obiezione davvero difficile da condividere, in quanto, a tacer d’altro, essa svaluterebbe sensibilmente l’importanza dei beni fondamentali della persona” .
Ovviamente, tale impostazione del problema risulta vieppiù adeguata laddove si consideri come le regole cautelari, di cui certamente le leges artis mediche sono una specie, non abbiano l’unica funzione di neutralizzare radicalmente il rischio connesso allo svolgimento di un’attività rischiosa lecita, ovvero di ricondurlo nell’àmbito del caso fortuito, ma anche quella, meno «intensa», di ridurre le possibilità di concretizzazione del rischio medesimo; anzi, proprio quello dell’attività medica è uno dei settori in cui meglio può osservarsi come la funzione delle regole prudenziali non sia quella di eliminare, bensì di contenere il rischio insito nell’attività socialmente utile.In definitiva, la questione da risolvere sarà quella di individuare il significato del consenso informato da tale angolazione critica, quale atto volto a provvedere della giustificata accettabilità la concretizzazione del rischio insito nell’atto medico, pur caratterizzato da indicazione terapeutica e condotto nel rispetto più rigoroso delle leges artis, quale atto di manifestazione di volontà consapevole, richiesta per ricondurre a liceità l’intervento medico in ragione della co-assunzione del rischio dell’esito sfavorevole del medesimo da parte del paziente. E in tal senso, non sembrano esservi ostacoli concettuali insormontabili nell’individuare, in quello costituito dalla previa raccolta del consenso informato del paziente da parte del sanitario, un adempimento la cui violazione informa il giudizio di colpa rilevante, sia in ragione dell’atto in sé considerato, sia in ragione della completezza dell’informazione da rendere in vista di una consapevole co-assunzione di rischio da parte del paziente. Lasciando in ombra l’ipotesi in cui l’assenza del valido consenso sia stata preordinatamentente perseguita dal sanitario, possono venire in rilievo i casi in cui il medico ha agito dimenticando di raccogliere “il consenso del paziente, omettendo per negligenza la dovuta informazione, avendo fornito un’informazione involontariamente inadeguata, avendo trascurato di verificare che il paziente abbia compreso le caratteristiche dell’intervento terapeutico” , casi in cui, secondo l’Autore da ultimo citato, “l’invalidità del consenso è attribuibile alla violazione di specifiche regole cautelari, cui il medico è tenuto nello svolgimento del suo compito informativo” .