L’ATTIVITÀ MEDICO/CHIRURGICA ARBITRARIA TRA “LETTERA” DELLA LEGGE E “DIMENSIONE ERMENEUTICA” DEL FATTO TIPICO
di Giovanni Caruso
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1. “Il compito dell’interpretazione è la concretizzazione della legge nel caso particolare, cioè l’applicazione. Certo si verifica così un perfezionamento creativo della legge, che è riservato al giudice, il quale però è sottomesso alla legge esattamente come ogni altro membro della comunità giuridica” . Così Hans George Gadamer individua il compito dell’interprete alla luce della cifra ermeneutica, come noto attenta al riconoscimento del rilievo della vena creativa dell’interprete-giudice nell’attività di sussunzione e/o sovrapposizione della fattispecie astratta al caso concreto. E tuttavia, la debita valutazione del passaggio gadameriano ora ricordato, consente di svolgere alcune riflessioni, al di là del riconoscimento del valore sostanzialmente creativo di diritto riconducibile all’attività giudiziale, anche da differente angolazione critica, afferente i limiti all’ineffabilità ermeneutica del giurista, laddove si riconosca che il suo sforzo intellettuale, per quanto non decodificabile alla stregua della mera sovrapposizione meccanicistica – e filosoficamente ingenua – del giudice bouche de loi di matrice illuministica, deve nondimeno scontare limiti insopprimibili, oltre i quali la stessa interpretazione traligna in puro atto creativo di diritto, insindacabile ed arbitrario.
In questo senso, affrontare il ricordato problema teorico equivale a porsi criticamente la domanda che, con precipuo riguardo ai nodi teorici dell’interpretazione nel diritto penale sostanziale e processuale, si pone Giovanni Fiandaca: “[…] nel presente momento storico cosa vuol dire perfezionare creativamente la legge penale, assumendo pur sempre come orizzonte e vincolo la legge scritta”? Tanto più che, come ammonisce l’Autore, la stessa “teoria ermeneutica ci suggerisce che il vincolo del giudice alla legge penale è sottoposto anch’esso a mediazioni interpretative, e che queste mediazioni sono di volta in volta condizionate dal contesto […] costituito […] dall’assetto costituzionale dei poteri e dalla cosiddetta costituzione materiale, dai testi normativi vigenti, dalle fenomenologie criminali da fronteggiare, dagli orientamenti della prassi giudiziaria e dalle culture e ideologie compresenti nell’universo magistratuale, dallo stato della dogmatica giuridica di matrice accademica e dalle connesse ideologie degli scienziati del diritto, dalle tendenze politiche e dalle aspettative sociali del momento […], dalle mode culturali generali e – infine, ma non per importanza – dalle contingenti logiche di funzionamento del circuito mediatico” .
D’altronde, come sottolineato da attenta dottrina, su di un piano più generale, il tema specifico rimanda ai rapporti tra giurisdizione e legislazione, poiché la “necessità di precisare i confini della interpretazione giuridica, e uscire dalla astratta contrapposizione tra l’«assoluta produzione» e l’«assoluta applicazione» delle leggi, si traduce, negli odierni sistemi «liberal-democratici» fedeli al principio della «divisione dei poteri» dello stato, nella esigenza di distinguere l’àmbito delle «leggi» stabilite dal Parlamento, da quello delle «sentenze» pronunciate dalle autorità giurisdizionali” . Nondimeno, con precipuo riguardo alle tematiche di diritto penale sostanziale, non si tratta di sottolineare genericamente l’inevitabile interazione tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, e il connesso profilarsi di un processo circolare (cd. «spirale ermeneutica» ) tra disposto normativo e caso vitale, in ragione del quale si accentua la discrezionalità valutativa dell’interprete e l’incidenza dei valori extratestuali o di contesto, e nel quale giocano un ruolo determinante, inter alia, anche le vedute personali, le passioni culturali, i riferimenti ideologici, l’attenzione alle conseguenze che la decisione può provocare sulla realtà esterna, le aspettative del contesto sociale e ambientale sulla decisione giudiziale, fattori tutti riconducibili alla categoriabase della cosiddetta precomprensione di origine gadameriana . Sul versante specificatamente penalistico, infatti, può riscontrarsi come la stessa fondamentale categoria del «fatto tipico», o Tabestand, possieda una autentica “dimensione ermeneutica”, sicché “il singolo tipo legale, cioè ogni singola figura criminosa si plasma, concretizza e specifica secondo lineamenti che sono anche influenzati dalla reale fenomenologia criminosa che viene di volta in volta in questione” , tanto che al fatto tipico in senso legale si affianca – ovvero, financo, si sovrappone – un fatto tipico in senso ermeneutico, a sua volta derivante dalle variegate incidenze del contesto in cui l’interprete si trova ad operare.
Proprio alla luce di tale differente angolazione teorica, vale a dire sulla scorta della consapevolezza «metodologica» di individuare la tipicità con spirito alieno tanto dalla pretesa di trovare soluzioni nella fredda lettera dei disposti normativi rilevanti, quanto dalla contrapposta posizione teoricogenerale, negatrice di qualsiasi vincolo all’attività creatrice dell’interprete, verrà affrontato, a seguire, il tema che ci occupa, afferente i profili di responsabilità penale in cui incorre il sanitario in caso di intervento chirurgico con esito infausto eseguito in assenza di consenso informato. E tuttavia, proprio il carattere problematico del tema affrontato, certamente costituente nel panorama dell’evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale un autentico «caso difficile» , induce a riflettere sulla natura che la questione presenta sotto il profilo ora ricordato; poiché, se, da un lato, “non tutti gli hard cases comportano la messa in mora della cornice categoriale , che inquadra la controversia giuridica e definisce, in pari tempo, i termini della interazione comunicativa dei soggetti” , dall’altro, proprio il caso della responsabilità medica, riproduce, a giudizio di chi scrive, la tensione ideale tra due differenti orizzonti idealtipici di riferimento, la cui pertinente valutazione può consentire di inquadrare in modo più consapevole le ragioni dell’incertezza e delle ondivaghe oscillazioni che affaticano da lustri la giurisprudenza sul punto.
2. In proposito, si ritiene di polarizzare l’attenzione sulle massime di due sentenze della Suprema Corte, le quali – se valutate per contenuto, diametralmente opposte – presentano un valore paradigmatico. Anzitutto, la sentenza 21 aprile 1992 della V sezione del Supremo Collegio, in procedimento Massimo: “Soltanto il libero consenso del paziente, quale manifestazione di volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto, in assenza di altre cause di giustificazione codificate, l’antigiuridicità della lesione procurata mediante trattamento medico-chirurgico.