LA NATURA HARD DELLA NUOVA FATTISPECIE CRIMINOSA
DI FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI (ART. 2621 C.C. ): abolitio criminis o abrogatio sine abolitione? Un nuovo caso difficile.
di Alberto Berardi

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Diritto penale societario (D. Lgs. 11 aprile 2002 n. 61, di attuazione dell’art. 11 della Legge 3 ottobre 2001 n. 366, in tema di disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali) inizia già a riverberare, in capo al momento dell’applicazione giudiziaria , buona parte dei forti dissidi politici che hanno animato tutto l’iter della creazione legislativa. E forse non poteva essere altrimenti: è certamente patrimonio acquisito della cultura giuridica e politica contemporanea il dato statistico sociologico in forza del quale, ogniqualvolta la politica criminale è attinta dall’esigenza di perseguire obiettivi variamente eccentrici rispetto alla dogmatica del diritto sanzionatorio criminale – dalla tutela emergenziale dell’ordine pubblico alla creazione di nicchie di salvaguardia per posizioni lato sensu dominanti o comunque peculiari (per abbozzare solo un paio di esempi) -, la tecnica di redazione normativa risulta inevitabilmente raffazzonata o comunque poco limpida. Così come, ahi noi, altrettanto acquisita ed incontestabile è la consapevolezza che il "caso" normativo diviene "caso difficile" non tanto per il legislatore, quanto, piuttosto, per il giurista, costretto a scontrarsi quotidianamente con le difficoltà e le ambiguità della prassi applicativa.
La logica sottesa a tale meccanismo assomiglia un po’ a quella dello sviluppo e della soluzione delle equazioni algebriche, che tanto hanno tormentato tutti e ciascuno sui banchi della scuola secondaria: l’errore di redazione della formula, anche quello sintattico più banale, quale, ad esempio, la distratta trascrizione di un segno più al posto di un segno meno, o viceversa, lungi dal rimanere circoscritto nell’àmbito della veniale distrazione, si trascina indefettibilmente per tutto lo sviluppo della soluzione, amplificando a dismisura, di riga in riga, il proprio effetto patologico, sino a giungere all’incomprensibilità, all’assurdità, alla non più semplificabilità del risultato finale. Rebus sic stantibus, le cose si complicano, e non si semplificano, come invece la soluzione delle equazioni algebriche esigerebbe. Il risultato finale, in sostanza, diviene ingestibile, ma questo, come è noto, è un problema dell’interprete, che con il risultato finale dell’applicazione della norma si scontra quotidianamente, non certo del legislatore sovrano, responsabile, tutt’al più, di aver commesso un banale e perdonabile errore di redazione, o di dettatura, nella individuazione della formula da applicare.
Il problema interpretativo che succintamente vogliamo sviluppare è quello di comprendere come debbano essere risolte le questioni di diritto intertemporale inerenti la formulazione della nuova norma incriminatrice di cui all’art. 2621 c.c., contemplante il reato di false comunicazioni sociali; trattasi di un fenomeno successorio di norme penali nel tempo, manifestantesi secondo la prospettiva dell’abrogatio sine abolitione, disciplinato dal comma 3° dell’art. 2 del c.p., ovvero, quanto all’incriminazione antecedente alla novella normativa, devesi prender atto di un’intervenuta abolitio criminis, le cui conseguenze giuridiche sono contemplate al comma 2° dell’art. 2 del c.p.?
Conseguenze in ordine alle quali, le differenze operative appaiono sì macroscopiche, da non meritare, in questa sede, approfondimenti di sorta: basti rammentare il significato del comma 2° dell’art. 2 c.p. nella parte in cui dispone che, a fronte di un’abolitio criminis, "se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali", di talché ogni sentenza di condanna passata in giudicato diviene astrattamente suscettibile di revoca da parte del giudice dell’esecuzione, a’ sensi degli artt. 673, 666 c.p.p., per comprendere la "serietà" interpretativa ed applicativa della questione che ci occupa.
"Serietà" a fronte della quale i primi arresti giurisprudenziali in subiecta materia si determinano come inevitabilmente, ed ovviamente, oscillanti.
La giurisprudenza di legittimità propende decisamente per l’ipòtesi dell’abrogatio sine abolitione, posto che "la nuova formulazione della fattispecie delle false comunicazioni sociali, presenta differenze in tema di sanzione e di punibilità, non strutturali rispetto alla previgente disciplina, con la conseguenza che tra le due fattispecie esiste continuità".
A contrariis sembra si stia invece orientando la giurisprudenza di merito , nel senso che la figura criminosa delle false comunicazioni sociali è caratterizzata da "disomogeneità e discontinuità rispetto alla previgente disciplina", "da completa eterogeneità strutturale, almeno sotto il profilo della previsione di soglie di punibilità che introducono in realtà nuovi profili costitutivi del reato; con la conseguenza che rispetto ai fatti accaduti sotto la vecchia normativa, si verifica un fenomeno di abolitio criminis".
Gli argomenti patrocinati dalla Corte di Cassazione a sostegno del proprio assunto, sostanzialmente, attengono alla considerazione che:
– la norma preesistente e quella sopravvenuta tutelano un identico interesse, quello alla veridicità delle scritture sociali, a prescindere dalla distinzione – testualmente definita – lieve in ordine all’elemento soggettivo del reato;
– i soggetti agenti e le parti offese sono praticamente identici in entrambe le fattispecie;
– le dizioni normative scontano differenze rilevanti solo in punto di sanzione – si transita da un delitto ad un reato contravvenzionale – e di punibilità, attese le cause di esclusione della stessa introdotte ai commi 3° e 4° del nuovo art. 2621 c.c.;
– è evidente la diversa scelta di politica criminale perseguita dal legislatore, orientata ad affievolire il controllo penale sull’attività imprenditoriale esercitata in forma societaria, ma tuttavia resta immutato il momento strutturale delle due fattispecie incriminatrici che continuano a tutelare, seppur in modo parzialmente differente, il medesimo interesse.
In definitiva, il "vecchio" falso in bilancio non esce soppresso dalla novella normativa, bensì soltanto modificato.
Tale atteggiamento interpretativo francamente non convince.
Anzitutto – ma questo, forse, è il dato meno significativo – la decisione in esame àncora sostanzialmente la propria conclusione ad un’esclusiva valutazione della continuità delle due norme incriminatrici, quanto al momento della tutela del bene giuridico protetto, secondo l’orientamento della ricerca della cd. "continuità del tipo di illecito" , laddove, invece, ben più significativa sarebbe apparsa un’indagine in punto di verifica dei rapporti strutturali tra le norme, in termini di omogeneità o di disomogeneità .
A tal proposito, è proprio l’affermazione di indifferenza strutturale tra le due norme che desta non lievi perplessità, atteso come la nuova disciplina, a ben vedere, riconnota ex novo proprio la tipicità strutturale del fatto di reato, introducendo il nuovo elemento delle soglie di rilevanza penale della condotta (5% del risultato economico di esercizio, 1% del patrimonio netto, 10% differenziale del valore estimativo delle singole poste rispetto alla valutazione corretta), relegate, invece, con sufficienza, dal Supremo Collegio, nell’àmbito delle cause di non punibilità, in quanto tali incidenti solo su quest’ultima, e non sul fatto tipico .
Ma tale conclusione non condivisibile – che senso ha, infatti, considerare tipico, ancorché non punibile, un fatto inidoneo ad attingere quel minimo quantitativo di rilevanza offensiva che qualifica come meritevole di sanzione penale una determinata condotta? – è certamente condizionata – e valga la presente come circostanza attenuante delle responsabilità del giurista – dagli esiti nefasti dell’esegesi letterale della norma incriminatrice, che, facendo testuale riferimento (al comma 3°) ad una "punibilità" che "è esclusa", nonché (al comma 4°) ad un "fatto" (quale, quello tipico?) che "non è punibile", è rivelatrice di una sostanziale incoscienza, in capo al legislatore, della non fungibilità concettuale della dogmatica della tipicità, rispetto a quella della punibilità .
Consapevolezza che, invece, ha certamente animato la già richiamata giurisprudenza di merito, che, oltre ad aver evidenziato, in capo alle norme in esame, i mutati requisiti in punto di elemento soggettivo di sostegno della condotta , riconosce altresì, quanto alle soglie di punibilità, quegli elementi di diversità, di eterogeneità strutturale tra il "vecchio" e il "nuovo" art. 2621 c.c., che consentono addirittura – così si esprime il Tribunale di Macerata – di riconoscere, in capo alla riscrittura della norma, la fonte della sua "mutazione genetica".
In conclusione, non v’è chi non scorga come, sin dai primi vagiti applicativi, la nuova disciplina sanzionatoria del diritto penale societario appaia genetica dell’ennesimo "caso difficile", a proposito del quale il rapporto di successione tra le diverse fattispecie astratte è stato inquadrato, dogmaticamente, in due soluzioni differenti, quella dell’abrogatio sine abolitione e quella dell’abolitio criminis, tra loro evidentemente antitetiche. La fonte principe di tale èsito patologico dell’ordinamento giuridico non può che essere mestamente individuata nella surriferita ambiguità del disposto normativo, sincero disvelatore della scarsa "competenza semantica di un legislatore incapace di fissare univocamente il significato del proprio comando" .
Peraltro, la soluzione proposta dalla giurisprudenza di merito appare ampiamente condivisibile perché dogmaticamente corretta e certamente coerente col cànone ermeneutico dell’intenzione del legislatore . Per converso, riconoscere – così come proposto dalla Cassazione – elementi di continuità tra fattispecie incriminatrici sì differenti, tutt’al più, può apparire significativo di un atteggiamento vagamente ripristinatorio di violati principi di giustizia sostanziale, variamente ideologizzati, tipici della logica della giurisprudenza alternativa e riequilibratrice di rapporti di forza considerati (forse non a torto) sbilanciati, che appare figlia dell’ormai consolidato equivoco teoretico della concorrenza tra giurisdizione e legislazione, che si combatte, però, sotto le ali protettrici della teoria della sovranità e del diritto come "positivamente" funzionale al solo potere , atteggiamento, tuttavia, che preferiamo respingere, poiché "l’interprete che volesse, ribellandosi al legislatore, "salvare il salvabile", (…) si renderebbe complice maldestro di un disegno antagonista pensato da altri" .
Non resta, in definitiva, che prendere atto dell’intervenuta abolitio criminis e delle conseguenze che questa porta con sé e, facendo nostro il suggerimento di Massimo Donini, "lasciare al legislatore le sue (e sono molte) responsabilità, senza assumerne in proprio di ulteriori, stravaganti e probabilmente inutili" .
Peccato che il legislatore sovrano, poiché sovrano, responsabilità proprio non abbia, se non, forse, quella di aver distrattamente vergato un testo normativo … ma i veri problemi, lo abbiamo in apertura ricordato, sono quelli dell’interprete, che si scontra con il risultato finale, della cui descritta abnormità, analogamente all’èsito di un’equazione algebrica errata, non sembra si possa francamente dubitare.